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Il referendum di Cameron e la paura del Brexit

Il referendum di Cameron e la paura del BrexitIl premier britannico David Cameron – Lapresse-Pa

Sbilanciamo l'Europa Londra ha già 4 opt out: euro, Schengen, la giustizia e la Carta dei diritti fondamentali

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 22 maggio 2015

Il referendum sull’adesione all’Unione europea promesso da David Cameron potrebbe essere anticipato al 2016, un anno prima del previsto. Il cambiamento di data è stato evocato dal ministro degli esteri, Philip Hammond, per venire incontro alle inquietudini del mondo degli affari, preoccupato per un periodo troppo lungo di incertezza su un eventuale Brexit.

Questa mossa ha anche lo scopo di aumentare la pressione di Londra su Bruxelles. Il 2017, difatti, è un anno difficile per negoziare, visto che due grandi paesi – Francia e Germania – saranno in campagna elettorale. Parigi e Berlino, del resto, già rifiutano oggi la richiesta di Cameron di rivedere i Trattati, avventura dall’esito incerto in questo periodo di disamore della Ue, che non riguarda solo l’Inghilterra.

Cameron vuole ottenere delle concessioni importanti da Bruxelles, per poter fare campagna a favore della permanenza nella Ue. Come propone Open Europe, organizzazione legata al padronato britannico, l’obiettivo di Cameron è «restare in Europa, ma negoziando una riforma radicale per essere più liberi».

Nei quotidiani popolari anti-Europa (quasi tutti, eccetto il Daily Mirror), Bruxelles è accusata di essere il regno dei burocrati, che vivono per limitare la sovranità britannica e minacciano, nella loro follia, tutto ciò che costituisce la tradizione inglese, dal bollitore al tostapane.

Ma al di là di questo folklore, cosa può negoziare la Gran Bretagna con Bruxelles?

Londra ha già quattro opt out: euro, Schengen, la giustizia e la Carta dei diritti fondamentali.

Prima del voto, Bruxelles aveva già messo il freno su circa 300 nuove regole in discussione, per non dare nuovi argomenti agli euroscettici. Ma il folto gruppo di deputati conservatori ultra – circa un centinaio – non si accontenta di questo rallentamento sulla burocrazia di Bruxelles. Questo gruppo chiede a Cameron di ottenere nuovi poteri per la Camera dei Comuni, di modo che sia possibile per Westminster mettere il veto su ogni legge europea.

Il ministro delle finanze, George Osborne, in collaborazione con l’euroscettico Philip Hammond, guida i negoziati con Bruxelles, che devono partire già nei primi cento giorni del nuovo governo. Vogliono ottenere da Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione che Cameron ha fatto di tutto per non far eleggere, un «gesto»: a Bruxelles sono allo studio delle proposte per cambiare le regole sulla «mobilità dei lavoratori», richieste del resto anche da Olanda e Germania. Questi paesi intendono lottare contro il «turismo sociale» dei cittadini Ue, sospettati di emigrare nei paesi solo per il welfare. Potrebbe venire imposto un periodo – fino a due anni di residenza – prima di poter accedere ai diritti sociali. Anche la Francia è d’accordo per regole più severe contro i «lavoratori distaccati», accusati di concorrenza sleale.

Questi cambiamenti possono essere fatti senza modificare i Trattati. Ma la Gran Bretagna non riuscirà ad ottenere modifiche sulla libera circolazione dei cittadini, uno dei fondamenti della Ue. Resta il «no» deciso a nuova immigrazione extra Ue, ma il rifiuto delle «quote» di rifugiati proposte da Juncker è ormai condiviso da molti altri paesi, comprese Francia e Spagna.

Cameron è tra due fuochi: da un lato, il peso degli euroscettici nel suo campo – non più moderato dai LibDem, ormai assenti dal governo – e il mondo degli affari dall’altro, che teme un Brexit ed è favorevole al mercato unico, dal quale dipendono 3,5 milioni di posti di lavoro in Gran Bretagna. L’export britannico è quasi al 50% diretto verso i partner Ue.

[do action=”citazione”]Per Open Europe, un’uscita dalla Ue significherebbe un calo del pil di almeno il 2,3%.[/do]

Il settore bancario fa pressione. La Deutsche Bank, per esempio, (9mila impiegati in Gran Bretagna) ha già incaricato un gruppo di lavoro per «misurare l’impatto potenziale» di un Brexit e minaccia di rimpatriare in Germania le attività che ora svolge sul suolo britannico. «Un periodo di incertezza prolungata sull’adesione della Gran Bretagna alla Ue e il suo accesso al mercato unico potrebbe rendere più fragili le banche internazionali che sono grossi datori di lavoro nel paese», ha messo in guardia il direttore dell’Associazione dei banchieri britannici, Anthony Browne.

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