Bum, fece il rapporto di Sue Gray fatto brillare in mezzo all’aula: una deflagrazione sommessa, un esile pennacchio di fumo. Questo grazie agli artificieri: quella polizia capeggiata con solerzia dall’ex-MI6 Cressida Dick che – dopo un andirivieni a sua volta degno di inchiesta – aveva finalmente aperta lei stessa un’indagine su dodici delle sedici illecite congregazioni a Downing Street in pieno lockdown, impedendo così a una stizzita Gray di pubblicare il rapporto nella sua interezza fin quando le indagini non saranno terminate. Forse fra mesi, anche un anno. Gli inquirenti avrebbero tra le mani ben trecento fotografie e duecento pagine di resoconti di libagioni e festeggiamenti – compreso quello del compleanno del premier – tenutisi nel palazzo del potere mentre il resto del paese era fisicamente ed emotivamente schiacciato da misure trasgredite proprio da quei pochi che le avevano imposte.

Un sollievo per Boris Johnson? Ni. Da una parte il temutissimo resoconto delle festicciole – che continuano a moltiplicarsi mentre il mondo (era?) in piena morsa del Covid – e redatto dalla funzionaria “indipendente” nominata dallo stesso Johnson per giudicarne l’operato menzognero è lungo poco più di una decina di pagine. Peggio, non contiene nemmeno un nomignolo. Dall’altra è tuttavia duro quel tanto che la forma e la sostanza, mutile e incomplete, permettevano.

Gray ha preso sul serio il proprio ruolo di indagatrice nominata dall’indagato, come del resto ci si aspettava. Pur disossato, il suo rapporto contiene aspri e inequivocabili rimproveri alla gestione di Downing Street. Parla di «mancato giudizio e leadership», di «comportamenti difficili da giustificare». Si avventa puritanamente sulle sbornie interclassiste tanto care ai Tories di ogni ceto ed estrazione (quel «portatevi da bere» come a una festa in uno squat), rimpacchettandole come «cultura del bere». Deplora la dilatazione dello staff del premier come di un «esecutivo nell’esecutivo», con ovvi problemi interni di gestione e coordinamento. Biasima l’uso disinvolto del giardino, che da luogo ventilato atto a ospitare salubri e sicure conversazioni di lavoro ha finito per diventare il privé di una discoteca all’aperto.

Così alle quattro e mezza di ieri, due ore dopo aver personalmente ricevuto il rapporto nelle sue stanze che ancora riecheggiano di risate senza mascherina e tintinnio di bicchieri, Johnson ha nuovamente affrontato il pubblico ludibrio in un’aula divisa fra la partigianeria e lo sdegno. Tutto sommato cavandosela ancora una volta. Rispolverando l’attrizione teatrale delle ultime settimane, rimasticando le sue scuse e ripetendo il solito refrain: «Aspettiamo che la polizia ultimi le indagini». Promettendo poi quello che non gli costa nulla fare: far rotolare un po’ di teste, dare una rinfrescata allo staff, far pagare, insomma, ai suoi sottoposti il prezzo di una colpa comune. Ma anche rifiutandosi di confermare quello che aveva già più svolte annunciato avrebbe fatto: pubblicare il rapporto nella sua interezza a tempo debito, cosa che tutta l’opposizione e il sempre più sparuto drappello di integerrimi del suo stesso partito chiassosamente reclama in quanto unica possibilità di liberarsene, loro e il paese.

Così, se da una parte è evidente che Johnson ha guadagnato altro tempo prezioso, la pressione su di lui resta. Ieri in aula ha ricevuto il prevedibilissimo eppure duro attacco di Theresa May; poco prima un’altra deputata tory, Angela Richardson, assistente del ministro dell’Edilizia abitativa Michael Gove aveva annunciato le sue dimissioni. Perfino Keir Starmer è stato clinico ed efficace, trafiggendolo come a un barbecue. Fino all’unico momento drammatico in aula, quando Ian Blackford, il capogruppo dell’Snp ha accusato Johnson di mentire all’aula: colpa imperdonabile che lo speaker, il laburista Hoyle, ha punito con l’estromissione di Blackford, come da prassi.

C’è quasi da sperare che Kiev non diventi la Sarajevo del XXI secolo: oggi “Boris” è in volo verso l’Ucraina, ringraziando probabilmente in cuor suo l’espansionismo putiniano.