Le macerie di Mosul, e la disperazione che la guerra si è lasciata dietro: un paese diviso e impossibile da riconciliare, le perdite insanabili, gli odi reciproci, il desiderio di vendetta, la brace che cova sotto le ceneri di un’esile «vittoria». Il documentario Isis Tomorrow, The Lost Souls of Mosul di Francesca Mannocchi e Alessio Romenzi, presentato fuori concorso, racconta la città e il suo supplizio durante e soprattutto dopo la lunga battaglia per sottrarla all’Isis dal punto di vista dei «colpevoli» – gli adolescenti e i bambini arruolati dall’Isis – e già dal titolo guarda al domani: cosa ne sarà delle «anime perdute» di Mosul e non solo? Ne abbiamo parlato con Francesca Mannocchi.

Quando avete deciso di testimoniare quello che stava succedendo a Mosul?
Stavamo già seguendo la guerra in Iraq perché è il nostro lavoro, Alessio un fotografo, io scrivo e lavoro per la Tv. Nel raccontare quella guerra – iper mediatica, con centinaia di telecamere ovunque – ci sembrava ogni giorno di più che mancasse un tassello: e cioè la voce dei colpevoli, non banalizzata o sintetizzata – ma in quanto esseri umani. Eravamo abituati a vedere questi bambini nei video di propaganda e non ci siamo mai chiesti chi fossero, se sarebbero riusciti a perdonare i loro padri per averli costretti a imparare a usare un kalashnikov. Volevamo ridare umanità a un fenomeno che era stato anche «romanzato» dalla comunicazione propagandistica dell’Isis da un lato, e dal giornalismo che l’ha raccontato dall’altro.

Come avete lavorato proprio con i video di propaganda dell’Isis che si vedono nel vostro film?
Ci siamo interrogati a lungo e ci siamo dati delle regole molto semplici: tutto va mostrato ma anche spiegato. L’unico limite che ci siamo imposti di non superare era quello della morbosità rispetto alla guerra, la morte e agli stessi racconti della violenza. Ma la guerra è fatta di morti, e i morti ci sono ancora a distanza di un anno dalla fine del conflitto: non mostrare i cadaveri e quel dolore sarebbe stato ipocrita. Quelle cose esistono così come i video di propaganda, serve avere gli strumenti per metterli in un contesto che li renda comprensibili a chi guarda.

I bambini sono al cuore del film. Come vi siete rapportati a loro?
Con una totale assenza di pregiudizi e con una grande curiosità umana, etica, morale e storica. Volevamo capire perché un bambino di 16 anni possa volersi far saltare in aria. Ed è stata l’unica vera regola alla base del film: un infinito desiderio di capire cosa c’era dietro l’Isis, a un fenomeno che in tutti questi anni è stato banalizzato e semplificato.

Uno dei ragazzi sottolinea come tutto sia iniziato molto prima dell’arrivo dell’Isis, con i bombardamenti americani, Al Qaeda…
I bambini e le donne con cui abbiamo parlato hanno un’idea profonda e molto radicata della circolarità degli eventi della Storia. Che invece manca a chi racconta questi fenomeni, a chi fa sembrare che l’Isis sia nato dal nulla e che la guerra quando è vinta è finita. Questi ragazzi invece sanno che oggi l’«organizzazione» sta vivendo il suo momento «di bassa marea». Sanno che devono essere pazienti, perché è quello che gli hanno insegnato i loro padri e la Storia.