Il fine settimana è passato su un Lido preso d’assalto tra la Regata storica e le folle di giovanissime e giovanissimi arrivati per i loro divi del cuore – Timothée Chalamet prima e ieri Harry Styles, protagonista del film di Olivia Wilde Don’t Worry Darling – l’impossibile ricerca di un tavolino libero e l’affanno dei ristoratori tutti senza personale. Intanto i riflettori si sono accesi su altri festival, ugualmente importanti ai fini del destino di mercato dei film come quello di Telluride (partito il 2 settembre) e quello di Toronto (che aprirà l’8) dove si ritrovano molti dei titoli passati in anteprima alla Mostra, obbligata perciò a una programmazione «super-concentrata».

CHE CONCORSO è fino a oggi questo di Venezia 79? Forse un po’ fragile nei risultati rispetto alle promesse dei suoi autori, senza grandi colpi di fulmine né fascinazioni, con qualche titolo di troppo magari scelto proprio in virtù del cast sontuoso con cui garantire la folla sul Lungomare davanti al Palazzo del cinema. Tutto giusto, il lato mediatico «people» va curato pure se si potrebbe equilibrare con qualche scelta un po’ più eccentrica.

E se come si è detto da più parti la presenza dominante nella competizione sono gli Stati uniti – senza contare quella italiana di cinque titoli – e sia Monica di Pallaoro che Bones and All di Guadagnino sono parlati in inglese e girati in America – il resto del mondo non ha dato grandi sorprese. Lascia perplessi la scelta per la Francia (aspettando Saint Omer di Alice Diop) di un film come Les Enfants des autres di Rebecca Zlotowski, regista autoriale assai cool oltralpe che nella vicenda di una quasi splendida cinquantenne (Virginie Efira) in crisi per il desiderio improvviso di maternità, confeziona un cinema piatto e di scrittura sempre prevedibile, giocato su un movimento narrativo – il suo nuovo amore, l’ostinazione a farsi amare dalla figlia di lui, il fatto che finirà male – di alcun coinvolgimento – l’unica cosa bella è il cameo teneramente ironico di Frederick Wiseman nei panni di un saggio ginecologo di famiglia.

Fuori concorso come spesso accade – nella selezione ufficiale la sezione Orizzonti è quest’anno di molto riuscita – è arrivato il nuovo film dell’attivissimo Sergei Loznitsa, The Kiev Trial, pochi mesi dopo quello visto a Cannes, Natural History of Destruction ispirato a W.G. Sebald. Il regista ucraino, nato in Bielorussia e che vive a Berlino ha messo in opera ormai un collaudatissimo dispositivo dei propri lavori che riguarda il metodo di produzione, la ricerca degli archivi e il loro riutilizzo «narrativo» all’interno della storia con cui si confronta.

Qui, appunto, «Il processo di Kiev» che si tenne nel 1946, prima di quello di Norimberga, nell’Ucraina che era diventata Repubblica sovietica.

Sotto accusa ci sono quindici ufficiali nazisti di diverso grado e divisione, compresi alcuni delle Ss e dei collaborazionisti responsabili di eccidi feroci e omicidi di massa contro migliaia e migliaia di ucraini: donne, uomini, bambini anche loro assassinati senza pietà, deportati, strappati alle loro madri, mandati a morire col gas. E poi villaggi distrutti, violenze, saccheggi. Come l’Eichmann di La banalità del male riconoscono le loro colpe ma rispondono dicendo che hanno obbedito agli ordini del Führer – «I bambini li abbiamo uccisi perché correvano».

Nell’aula di tribunale pienissima sfilano i sopravvissuti con parole terribili, dalle quali affiora una sorta di ripetizione della guerra oltre il tempo, dei suoi gesti, della sua modalità.

Ma perché ora? L’ analogia con la guerra in Ucraina di questi mesi quasi si impone, anche se come ha detto il regista lui aveva iniziato a lavorarci già da prima.

SONO GIOVANI donne torturate negli interrogatori e violentate, uomini costretti a seppellire le migliaia di ebrei uccisi come nel massacro di Babi Yar – a cui il regista ha dedicato uno dei suoi film. Un prete ricorda l’arroganza di questi militari contro gli abitanti del suo villaggio, quando un soldato presentandosi nudo e armato a un matrimonio di contadini aveva iniziato a sparare ovunque. Le voci si alternano ma dicono sempre di devastazione, case bruciate, crudeltà, sopraffazione. Le risposte degli imputati vengono tradotte dal tedesco al russo, i graduati più importanti provano anche a sottrarsi spiegando che non tutto era sotto il loro controllo, quasi sempre smentiti dai testimoni. Il processo venne filmato per ragioni propagandistiche, Loznitsa ha spiegato che i materiali di cui vorrebbe pubblicare le registrazioni audio in un volume, non erano mai stati utilizzati.

Ma perché ora? L’ analogia con la guerra in Ucraina di questi mesi quasi si impone, anche se come ha detto il regista lui aveva iniziato a lavorarci già da prima. «Quando i russi hanno invaso l’Ucraina ci siamo sentiti riportati indietro di decenni, quanto stiamo vivendo oggi è la diretta conseguenza di colpevoli omissioni a partire dal 1917 fino a conclusione dell’Urss. Intendo dire che non sono mai stati fatti processi ai crimini sovietici, specie di stampo stalinista. Perché la Russia oggi come allora non si è veramente modificata, in fondo è nelle mani di un ex Kgb. Un giorno loro dovranno pagare tutto il male che stanno facendo all’Ucraina e al mondo intero, ma per farlo dovranno essere messi sotto accusa in un tribunale e forse allora noi li filmeremo» ha detto il regista.

C’è nelle immagini del passato che terminano con l’impiccagione di tutti gli imputati sulla piazza gremitissima della città – una sequenza molto forte, in cui risuonano altre memorie storiche di esecuzioni del potere «simboliche» – come sempre nei film di Loznitsa un legame col presente, che lo rende un oggetto dalla valenza complessa, intellettualmente e politicamente provocatorio, esteticamente affascinante ed emotivamente vicinissimo. Capace soprattutto di riempire il cinema e la sua stessa storia, l’archivio, di un senso diverso, vitale, che ne rovescia la committenza (qui appunto la propaganda sovietica) tra crepe impreviste.