Radicali, marginali, ideologici, politicizzati, manipolati. Questo e altro ancora è stato detto dei partecipanti alle proteste per difendere il parco Gezi cominciate nove giorni fa. A Istanbul, dove tutto è iniziato, dopo il ritiro della polizia da piazza Taksim avvenuto sabato scorso, migliaia di manifestanti si sono riappropriati del parco. E adesso stanno dando vita a uno spazio sociale dove viene sperimentata una nuova forma di coesistenza civile. Ma chi sono veramente questi «ribelli» e cosa vogliono?

Secondo un sondaggio condotto dall’Università Bilgi, più del 60% dei manifestanti del movimento ribattezzato Occupy Gezi appartiene alla fascia d’età tra i 19 e i 30 anni.Il gruppo più numeroso, con una percentuale del 39,6% è rappresentato dai giovani tra i 19 e i 25 anni. Il 70% dei duemila intervistati ha dichiarato di non sentirsi vicino a nessuna formazione politica, mentre il 53,7%, non aveva mai partecipato ad alcuna manifestazione di massa prima d’ora. Numerosi gli studenti, liceali e universitari.

Il movimento del parco ha riunito i gruppi dalle posizioni più disparate. Si trovano l’uno accanto all’altro gruppi della sinistra rivoluzionaria, sindacati, ong, attori e artisti, nazionalisti, tifosi di squadre di calcio, musulmani anti-capitalisti, anarchici, l’unione della gioventù turca, il movimento dei curdi, casalinghe… E ognuno spiega le motivazioni diverse e comuni che lo hanno spinto a scendere in piazza.

[do action=”quote” autore=”Pinar, studentessa di ingegneria”]«Il governo ci chiama marginali, ma noi siamo riusciti a superare le nostre differenze e la nostra paura. Ora chiediamo che cessi la violenza, che non muoia più nessuno e che il premier si dimetta»[/do]

Pinar, studentessa di ingegneria, fa parte del sindacato giovanile Genç-Sen, afferente alla confederazione dei lavoratori rivoluzionari (Disk). «Mia madre è nazionalista, mio padre è legato alla sinistra rivoluzionaria. Ora ciascuno di loro si trova alle manifestazioni di Izmir e Antalya – racconta -. Ci ha mobilitato l’accumulo di violenze. Io ero presente quando la polizia ha attaccato mentre pernottavamo nel parco. Il premier ci chiama marginali, dice che siamo una minoranza. Ma noi siamo qui, in migliaia. Siamo riusciti a superare le nostre differenze e la nostra paura. Ora chiediamo che cessi la violenza, che non muoia più nessuno e che il premier si dimetta».

Anche Mehmet studia ingegneria, ma in una università privata. Venerdì scorso è stato trattenuto dalla polizia per 27 ore. «Ero assieme ad altri amici, non ci hanno fatto niente, ma ci hanno lasciati chiusi per otto ore in un pullman dicendoci che ci avrebbero liberati da un momento all’altro. Il panico era grande, perché nessuno aveva mai vissuto qualcosa di simile. Seguiamo la politica, ma non siamo attivisti», specifica.

Quando chiedo a Mahmut e Sakik, due universitari di 25 anni, se fanno parte di qualche movimento mi rispondono che loro fanno parte del “popolo”. «Alle ultime elezioni io ho votato l’Akp – racconta Sakik – ma sono estremamente pentito dopo quello che è successo. Ho votato Erdogan perché non c’erano leader migliori di lui. Ma il suo approccio è cambiato. Noi non siamo a priori contro la polizia, ma quello che ha fatto ai nostri amici è inaccettabile. Trovarci tutti insieme qui, senza distinguere etnie, religione, posizioni politiche è una cosa meravigliosa. È un popolo che crede in qualcosa. Non siamo provocatori, siamo il popolo e la sua voce». «La mia famiglia non la pensa come me – interviene l’amico -, ma qui le persone erano state maltrattate e io sono venuto ad aiutarle. Stare uniti è una necessità ormai». Poi aggiungono entrambi che «il premier deve ritornare sui suoi passi o dare le dimissioni».

Mercoledì il parco era anche pieno di lavoratori del settore pubblico, in sciopero per 48 ore. «Deve essere chiaro che ciò che ci ha portato in piazza non sono convinzioni politiche. Qui ci sono solo esseri umani che protestano contro l’autoritarismo del governo. Se non si scusano andremo avanti così», dice uno di loro.

Due passi nel presidio

Nel parco il presidio è continuo, alla sera si fa fatica a camminare tra la folla. Si condividono le tende in cui dormire, cibo, tè, birra. Se si vuole si può prendere in prestito un libro dalla biblioteca appena allestita o, se si preferisce, si può fare un giro al «museo della rivoluzione» all’ingresso del parco. E non manca nemmeno un servizio di assistenza sanitaria.

Tra la categorie presenti fin dall’inizio dei sit-in nel parco si trovano anche i lavoratori del settore cinematografico e televisivo. Ma le condizioni di lavoro delle famose serie tv turche tanto amate anche all’estero non sono per niente invidiabili. «Non abbiamo alcuna tutela, siamo precari a tutti gli effetti», spiega una costumista e direttrice artistica free-lance. «Mi trovo a dover gestire numerose situazioni di censura che, nel mio campo, riguarda l’abbigliamento, soprattutto se si tratta di serie per la tv statale», racconta. E aggiunge: «Noi del cinema e della tv lavoriamo tutti in questa zona, per noi il parco è molto importante. Grazie a esso abbiamo imparato a stare l’uno accanto all’altro e il rispetto per gli spazi di vita».

[do action=”quote” autore=”Ibrahim Iris, attore televisivo”]«La cosa fondamentale è che questa situazione ci ha dimostrato perché le autorità non vogliono che ci riuniamo. Sanno che quando ci ritroviamo insieme è una festa. Eravamo come bambini insicuri e ora ci è tornata una fiducia incredibile»[/do]

«Il premier ci ha chiamato radicali. Ma era lui a essere radicale un tempo», afferma Ibrahim Iris, attore televisivo. «È stata la sua radicalità ad averlo reso popolare. Ora però è cambiato. In Turchia è sempre stata una buona cosa essere radicali». Cosa succederà adesso? «Potrebbe non succedere più niente – risponde Iris – perché il governo ha la legge dalla sua parte. Il centro commerciale si farà lo stesso, forse. La cosa fondamentale è che questa situazione ci ha dimostrato perché le autorità non vogliono che ci riuniamo. Sanno che quando ci ritroviamo insieme è una festa. Eravamo come bambini insicuri e ora ci è tornata una fiducia incredibile. Come società, ci eravamo dimenticati di guardarci allo specchio, socializzare, condividere un pensiero, vederne il riflesso. Nessuno sapeva che saremmo arrivati a questo punto. E ora non possiamo immaginare quello che succederà».
«È una mobilitazione che passerà alla storia» affermano all’unisono gli universitari dell’associazione giovanile kemalista Tgb. «Non siamo qui solo per salvare il parco», aggiunge una ragazza. Il compagno precisa: «Solo il popolo può risolvere la situazione in cui ci troviamo lottando contro il capitalismo e seguendo i principi di Atatürk e della fratellanza».

Un popolo rancoroso

Una critica molto forte al partito islamico moderato della giustizia e dello sviluppo (Akp) arriva da un gruppo chiamato «Musulmani anti-capitalisti», composto da circa duecento membri. Un suo simpatizzante, che dice di voler comunque parlare a titolo personale, ritiene «inaccettabile il fatto che l’Akp utilizzi la religione per imporre la gerarchia nello stato. L’Islam non è l’oppio dei popoli. Ingannano con Dio, sfruttano il popolo. Hanno ucciso l’aspetto rivoluzionario della religione. Quella che predicano loro è la religione dei sultani, non del popolo» afferma il ragazzo. Riferendosi all’atmosfera di festa presente nel parco dice: «È bellissimo. Questo per me è sperimentare Dio. Ci sono un po’ di kemalisti che sembrano provare rancore nei nostri confronti. Noi purtroppo siamo un popolo rancoroso. Non riusciamo ad allontanarci dalle ideologie. Questa atmosfera però può essere una possibilità per superare queste divisioni».

[do action=”quote” autore=”Un simpatizzante del gruppo Musulmani anti-capitalisti”]

«Hanno ucciso l’aspetto rivoluzionario della religione. Quella che predicano loro è la religione dei sultani, non del popolo»

 

[/do]

Mentre a Istanbul i manifestanti festeggiano con fuochi d’artificio la conquista del parco, in altre città turche gli scontri per Occupy Gezi non accennano a smettere: a Rize, Dersim (Tunceli) e ad Antakya dove un ragazzo di 22 anni, la seconda vittima dall’inizio degli eventi, ha perso la vita per un colpo ricevuto alla testa. 36 persone sono state fermate a Smirne per i tweet inviati a incitamento delle manifestazioni a favore di Gezi (12 sono state poi rilasciate). Ieri il premier Tayyip Erdogan, prima di tornare in patria dopo la visita nel nord Africa, ha lanciato un messaggio ai manifestanti: il progetto di cementificazione del parco andrà avanti.

* www.balcanicaucaso.org