Adesso, solo adesso, lo dice anche Giorgia Meloni, il cui partito è stato l’unico (con la Lega) a non permettersi mai un dubbio sul provvedimento bandiera dei 5 Stelle, il taglio dei parlamentari. «Il parlamento ormai non esiste più», ha detto l’altro giorno la presidente di Fratelli d’Italia. Esagerava, al solito, ma voleva evidenziare un problema reale: le camere sono tenute ai margini delle decisioni politiche. Il fatto che il governo abbia consegnato il disegno di legge di bilancio al senato con un ritardo enorme è solo l’ultima conferma del grave, e non recente, fenomeno. Ma adesso, solo adesso, Meloni ha aggiunto: «Nel prossimo parlamento oltretutto ci sarà il taglio dei parlamentari e questo comprometterà ancora di più le cose». Se n’è accorta un po’ in ritardo. Prima, durante tutta la fase di approvazione della riforma costituzionale e poi del referendum che l’ha confermata, Fratelli d’Italia sosteneva che con meno «poltrone» il parlamento avrebbe funzionato meglio e che chi diceva il contrario era, appunto, un «poltronista».

Ora però, a un anno e un mese dalla promulgazione della legge costituzionale che farà a fette il parlamento dalla prossima legislatura (da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori elettivi) c’è l’aggravante che nulla di quello che era stato annunciato come imprescindibile corollario della riforma è stato approvato. Ed è questo, non solo le scarse prospettive di rielezione dei parlamentari in carica (che il taglio rende ancora più scarse) o la preoccupazione degli eletti di non raggiungere il mandato minimo valido ai fini del calcolo previdenziale, a rendere assai improbabile il voto anticipato dopo l’elezione del presidente della Repubblica. Comunque vada.

Non è stata fatta la legge elettorale proporzionale, che pure era indicata come imprescindibile per recuperare almeno un po’ di quella rappresentatività che il taglio dei parlamentari in ogni caso sacrifica. A questo punto è difficile che si riuscirà a fare, essendo mutate le convenienze dei partiti. Desideri e progetti di nuove eleggi elettorali non mancano, ma è probabile che si tornerà a votare con la legge attuale: proporzionale solo sulla carta e assai maggioritaria negli effetti. Non è stata fatta la riforma dei regolamenti di camera e senato, che pure a ranghi tanto ridotti si troveranno in grande difficoltà anche solo ad avviare i lavori (persino a formare i gruppi). A Montecitorio le divisioni tra chi vorrebbe cambiare quasi nulla (il centrodestra) e chi tanto (soprattutto il Pd) hanno bloccato la giunta per il regolamento. Due nuovi relatori stanno provando a rimetterla in moto.

Non sono state fatte neanche le riforme costituzionali minime – la riduzione da tre a due dei delegati regionali per l’elezione del presidente della Repubblica e la modifica della base elettorale del senato (da regionale a circoscrizionale) – che pure parevano godere di ampio consenso e che sono contenute nel disegno di legge Fornaro. Bloccato anche questo da oltre un anno (governo ancora Conte due), torna però la prossima settimana all’ordine del giorno della prima commissione alla camera. Con una difficoltà in più: la Lega, ora in maggioranza, non vuole rinunciare al vantaggio di poter contare, presto o tardi, sul peso sproporzionato dei rappresentanti scelti dai territori. Consiglieri regionali o sindaci (come adesso si comincia a chiedere) che siano, li vuole conservare tutti, 58, tra i grandi elettori.