«Non è bloccando le loro imbarcazioni che si risolve il problema dei migranti».

Nel giorno in cui il Tribunale dei ministri di Catania chiede di processare per sequestro di persona l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini per aver fermato 131 migranti a bordo della nave Gregoretti negando loro il permesso di sbarcare, e il tribunale civile di Palermo ordina il dissequestro della Sea Watch 3, la nave della capitana Carola Rackete, il Pontefice incontra in Vaticano 33 profughi, portati a Roma ad inizio dicembre dal campo di Moria nell’isola di Lesbo dal suo elemosiniere, il cardinale Konrad Krajewski – quello che a maggio riallacciò la corrente elettrica allo Spin Time di Roma, lo stabile di via Santa Croce in Gerusalemme occupato da 400 persone –, e dalla Comunità di Sant’Egidio.

«È L’INGIUSTIZIA che costringe molti migranti a lasciare le loro terre. Che li obbliga ad attraversare deserti e a subire abusi e torture nei campi di detenzione. Che li respinge e li fa morire in mare», dice Papa Francesco, parlando ai migranti ricevuti nel Palazzo apostolico, ma rivolgendosi indirettamente ai governi, italiano ed europei, a cui ricorda «l’impegno inderogabile di salvare ogni vita umana».

Chiede Bergoglio: «Come possiamo non ascoltare il grido disperato di tanti fratelli e sorelle che preferiscono affrontare un mare in tempesta piuttosto che morire lentamente nei campi di detenzione libici, luoghi di tortura e schiavitù ignobile? Come possiamo rimanere indifferenti di fronte agli abusi e alle violenze di cui sono vittime innocenti, lasciandoli alle mercé di trafficanti senza scrupoli? Come possiamo “passare oltre” – il riferimento è al sacerdote e al levita (un ebreo molto religioso) che, nella parabola del buon samaritano, lasciano a terra un uomo ferito –, facendoci così responsabili della loro morte? La nostra ignavia è peccato!». O, laicamente, crimine contro l’umanità.

IL DISCORSO ASSUME stringente attualità quando il Papa afferma che «non è bloccando le imbarcazioni che si risolve il problema. Bisogna impegnarsi seriamente a svuotare i campi di detenzione in Libia, valutando e attuando tutte le soluzioni possibili. Bisogna denunciare e perseguire i trafficanti che sfruttano e maltrattano i migranti, senza timore di rivelare connivenze e complicità con le istituzioni. Bisogna mettere da parte gli interessi economici perché al centro ci sia la persona, ogni persona», «bisogna soccorrere e salvare perché siamo tutti responsabili della vita del nostro prossimo».

I 33 PROFUGHI afghani, camerunensi e togolesi richiedenti asilo ricevuti da Francesco sono giunti da Lesbo in Italia lo scorso 4 dicembre, attraverso un «corridoio umanitario» speciale, negoziato da Santa sede e Comunità di Sant’Egidio con Italia e Grecia. Diverso quindi dai progetti dei corridoi umanitari extraeuropei portati avanti uno da evangelici, valdesi e Comunità Sant’Egidio, l’altro da Caritas e ancora Sant’Egidio.

Già nel 2016, tornando da Lesbo, Papa Francesco aveva portato in Vaticano, a bordo del suo aereo, tre famiglie di 12 profughi, più 9 giunti nei giorni successivi. Ora altri 33 (di cui 14 minori), più 10 che dovrebbero arrivare entro la fine dell’anno. Attualmente sono ospitati a Roma e provincia presso famiglie e associazioni della rete di Sant’Egidio e dell’Elemosineria apostolica. Anch’essi, come i 21 del 2016, seguiranno un percorso di inserimento, integrazione (scuola per i piccoli, lingua, formazione ecc.) e, una volta ottenuto lo status di rifugiati, autonomia.

E DA IERI, all’interno della Città del Vaticano, all’ingresso del Palazzo apostolico, c’è un nuovo segno legato alla tragedia delle migrazioni e al crimine dei respingimenti: una croce che «indossa» un giubbotto di salvataggio, recuperato nel Mediterraneo centrale il 3 luglio 2019 – chi lo indossava è presumibilmente annegato in mare – e donato al Papa da un gruppo di soccorritori. «Ho deciso di esporre qui questo giubbotto salvagente, crocifisso su questa croce – ha detto Francesco –, per ricordarci e ricordare a tutti l’impegno inderogabile di salvare ogni vita umana, un dovere morale che unisce credenti e non credenti».