Uniti su Gerusalemme, divisi su tutto il resto. Può essere sintetizzato così l’incontro che si è svolto ieri mattina in Vaticano fra papa Francesco e Recep Tayyip Erdogan.

Un’udienza fortemente voluta dal presidente turco (l’ultima visita di un capo di Stato turco risale a 59 anni fa, con papa Giovanni XXIII), che ha avviato i primi contatti con la Santa sede all’indomani della decisione del presidente Usa Donald Trump di trasferire l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendola di fatto come capitale di Israele.

Erdogan sapeva di essere in sintonia con il pontefice sulla questione Gerusalemme e sul suo status internazionale, in netta opposizione a Trump, e su questo ha cercato una sponda Oltretevere.

Anche per tentare di nascondere altri temi sui quali, invece, la distanza fra Santa sede e Repubblica turca è ampia. L’apice delle tensioni fra Francesco e il governo di Ankara si toccò nell’aprile 2015, centenario del genocidio degli armeni perpetrato dagli ottomani, quando il papa chiamò il «Metz Yeghern» (il Grande Male), «il primo genocidio del XX secolo».

Immediate le reazioni turche: Erdogan fece convocare il nunzio apostolico per una protesta formale ed espresse «forte irritazione» per le parole del papa. Ma Santa sede e Turchia sono lontani anche su altre questioni, in parte affrontate nel colloquio di ieri: la guerra, i migranti, i diritti umani.

La tensione era emersa già nei giorni precedenti l’arrivo di Erdogan. Domenica, a Torino, alcuni esponenti dei centri sociali hanno interrotto per pochi minuti la messa in una parrocchia, srotolando uno striscione davanti l’altare («Erdogan ha le mani sporche di sangue») e leggendo un breve testo: «Il papa e le più alte cariche dello Stato italiano incontreranno Erdogan, dittatore della Turchia, che da 15 giorni ha lanciato ad Afrin, nella Siria del nord, l’operazione ’Ramoscello d’ulivo’: il simbolo di pace dei cristiani per coprire una grande operazione militare con bombardamenti e un importante dispiegamento di forze di terra». E a piazza San Pietro, poco prima dell’Angelus, le forze dell’ordine hanno bloccato cinque cittadini curdi che volevano entrare in piazza con bandiere e striscioni.

L’incontro di ieri è stato blindatissimo. E il comunicato della sala stampa della Santa sede più laconico e asettico del solito. Segno della volontà, da parte dell’entourage del papa, di tenere un profilo basso, per non enfatizzare un’udienza «scomoda» e per non alimentare nuove tensioni con la Turchia.

Alla vigilia dell’incontro, due appelli – uno di Articolo 21 ed altre associazioni e un altro di vari esponenti della sinistra (Nicola Fratoianni, Luca Casarini, Gianfranco Bettin e altri) – avevano chiesto al pontefice di «affrontare in modo franco la questione del rispetto dei diritti umani» e di «richiamare Erdogan affinché cessi la campagna militare intrapresa contro i curdi in Siria e interrompa la spirale repressiva e di terrore intrapresa nel suo Paese». Francesco qualche appunto ad Erdogan l’ha fatto, sebbene per trovarlo bisogna leggere fra le righe del comunicato, cogliendo quello non c’è scritto.

«Nel corso dei cordiali colloqui – si legge – si è parlato della situazione del Paese, della condizione della comunità cattolica, dell’impegno di accoglienza dei numerosi profughi e delle sfide ad esso collegate. Ci si è poi soffermati sulla situazione in Medio Oriente, con particolare riferimento allo statuto di Gerusalemme, evidenziando la necessità di promuovere la pace e la stabilità nella regione attraverso il dialogo e il negoziato, nel rispetto dei diritti umani e delle legalità internazionale».

Più chiaro il messaggio contenuto nei doni di Francesco a Erdogan: un medaglione che raffigura «un angelo della pace che strangola il demone della guerra, simbolo di un mondo basato sulla pace e la giustizia». Insieme all’enciclica Laudato si’ e al messaggio per la Giornata della pace, dedicato alla nonviolenza.

Traduzione: siamo d’accordo sul fatto che Gerusalemme mantenga uno status internazionale, ma non sul resto, sulla gestione della questione migranti, sul rispetto dei diritti umani e sulla guerra contro i curdi in Siria.