È stata resa pubblica ieri in Vaticano l’esortazione apostolica di papa Francesco Gaudete et exultate sulla «chiamata alla santità nel mondo contemporaneo». Si tratta della terza esortazione dopo l’Evangelii gaudium, il manifesto programmatico del 2013, e l’Amoris laetitia del 2016, che aveva suscitato la levata di scudi degli ambienti conservatori per le aperture sulla comunione ai divorziati risposati.
Nel caso della Gaudete, siamo di fronte a un testo che, almeno a una prima lettura, si presenta decisamente meno problematico da recepire, ma che nondimeno contiene alcuni richiami certamente non universali, neppure nella stessa Chiesa. Composta da cinque capitoli molto densi, l’esortazione non si propone come un trattato sulla santità e neppure come un’analisi dei processi di canonizzazione. Sembra piuttosto un discorso a tutto campo sulla condizione dei cristiani nel tempo presente e sulle implicazioni pastorali di tale presenza.
Di un certo rilievo è l’attacco, in cui il pontefice si richiama alla lezione del Concilio Vaticano II sulla chiamata universale alla santità. Per Bergoglio i santi non sono solo quelli riconosciuti dalla Chiesa come tali: «non è necessario essere vescovi, sacerdoti, religiose o religiosi». Più precisamente, il papa prende le distanze da alcuni modelli nocivi di devozione e indica come strada maestra una rilettura in chiave attualizzante delle Beatitudini. Parlando dei rischi di deviazione, il riferimento sembra essere indirizzato a coloro che, nella Chiesa, coltivano «l’ossessione per la legge, il fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa».
Sono altri invece per il papa i parametri che contano, primo tra tutti quello dell’accoglienza. Nel mondo di oggi, scrive Francesco, a volte «le ideologie ci portano a due errori nocivi»: da un lato, «trasformare il cristianesimo in una sorta di Ong», dall’altro l’errore di quanti «vivono diffidando dell’impegno sociale degli altri, considerandolo qualcosa di superficiale, secolarizzato, comunista, populista».
Non è la prima volta che Bergoglio fa riferimento in questi termini al comunismo, prendendone ovviamente le distanze, ma anche suscitando lo sdegno delle destre per il parallelismo tra diversi disegni di emancipazione. Nella Gaudete viene messo nero su bianco il ribaltamento delle priorità pastorali per gli anni Duemila: non ci sono «altre cose più importanti» dell’impegno sociale, non si può vivere il cristianesimo come difesa di «una determinata etica o una ragione». Precisa Bergoglio: «spesso si sente dire che, di fronte al relativismo e ai limiti del mondo attuale, sarebbe un tema marginale, per esempio, la situazione dei migranti. Alcuni cattolici affermano che è un tema secondario rispetto ai temi “seri” della bioetica. Che dica cose simili un politico preoccupato per i suoi successi si può comprendere, ma non un cristiano, a cui si addice solo l’atteggiamento di mettersi nei panni di quel fratello che rischia la vita per dare un futuro ai suoi figli».
Sono parole importanti, perché arrivano dopo una lunga stagione in cui la Chiesa sembrava aver dimenticato che «ugualmente sacra è la vita dei poveri che sono già nati, che si dibattono nella miseria, nell’abbandono, nell’esclusione». L’esempio da seguire è quello dei tanti testimoni del vangelo, perché «la Chiesa non ha bisogno di tanti burocrati e funzionari, ma di missionari appassionati». Insomma, nessuno stravolgimento dottrinale – «la difesa dell’innocente che non è nato, per esempio, deve essere chiara, ferma e appassionata» –, ma un rinnovato richiamo ai laici a una missione pastorale dalle evidenti venature politiche contro i populismi xenofobi del nostro tempo.