Roman Liubyi

Il 17 luglio del 2014 l’MH17, un Boeing della Malaysia Airlines, scompare all’improvviso dai radar mentre sta sorvolando i cieli dell’Ucraina. Delle oltre trecento persone a bordo rimarranno solo frammenti di vite tra gli oggetti sparpagliati per chilometri in quella che si è autoproclamata – e mai riconosciuta – repubblica popolare di Donetsk. C’è (già) la guerra, pure se la comunità internazionale preferisce non riconoscerlo, ci vorranno molti anni perché ciò accada, quando cioè lo scorso febbraio la Russia ha invaso l’Ucraina. Le vittime dell’«incidente» però sono persone di molte nazionalità, per lo più olandesi e indonesiani – il volo partiva da Amsterdam per Kuala Lumpur – ma anche australiani, belgi, e così all’improvviso il mondo si sente coinvolto. Viene istituita una commissione di inchiesta con esperti da Australia, Olanda, Belgio, Malaysia, Ucraina e dell’agenzia Ue per la cooperazione giudiziaria penale che dopo otto anni di indagini stabilisce che a colpire l’areo è stato un missile Buk della 53a brigata aerea russa, posizionato nel Donbass dalla Russia. Sono anche individuati quattro responsabili, tre russi, Igor Girkin, Sergej Dubinsky (detto Khmury) e Oleg Pulatov (Gyurza)e un cittadino ucraino, Leonid Charcenko (Krot). Tutti condannati all’ergastolo – tranne Pulatov – in un processo in contumacia visto che la Russia si è sempre rifiutata di concedere l’estradizione degli imputati. Non solo: ha negato ogni responsabilità definendo il verdetto «politico».
Di questo parla Iron Butterflies (le «farfalle di acciaio», come i frammenti trovati nei corpi dei piloti che riportavano al missile), presentato al Sundance e poi al Panorama di Berlino, del regista ucraino Roman Liubyi, che da anni documenta la realtà nel suo Paese col gruppo produttivo Babylon’ 13, nato per costruire una narrazione della storia contro la propaganda mediatica e le ricostruzioni frettolose.
Ciò che colpisce oggi nella vicenda è il sentimento che vi si consolida intorno, le mistificazioni della Russia che nega, censura, reinventa, con l’arroganza di chi non considera minimamente la morte di 300 persone. Nei materiali che mescolano molte fonti diverse, dai film amatoriali ai grafici di ricostruzione, si ascoltano le prime reazioni dei russi che gioiscono per l’abbattimento con un entusiasmo testosteronico che non si smorza nemmeno quando appare la verità, e poi la sequela di omissioni, silenzi, bugie, qualcosa che sembra anticipare con precisione il conflitto di oggi – la Russia di Putin non si è mai scusata né assunta alcuna responsabilità.
Quando è iniziata la guerra Liubyi era a Londra, è tornato per portare via la moglie e la figlia – «Non volevo farle stare al buio e al freddo» – mentre lui è rimasto invece a Kyiv: «Non escludo però di ritrovarci in primavera, il problema è che ci sono attacchi continui contro le infrastrutture coi droni e coi missili che colpiscono anche le case e i i luoghi abitati». Ci parliamo su zoom da Park City.

Il suo gruppo di lavoro – e produzione – si chiama Babylon’ 13. Quando avete iniziato?

Durante la rivoluzione di Piazza Maidan, ognuno cercava di fare il suo meglio per sostenere il Paese, e noi abbiamo deciso di girare film. Li mettevamo subito online coi sottotitoli in inglese così che tutto il mondo poteva sapere cosa stava succedendo. Questa esperienza è stata molto importante, ero giovane e mi ha permesso di iniziare a lavorare come regista. Il nostro era un progetto di attivismo e di arte, con l’obiettivo di raccontare i fatti in profondità, da più aspetti come invece non accade. Questo film nasce dalla stessa necessità, la vicenda dell’aereo non era stata raccontata in un modo per me corretto, e al di là delle questioni ucraine aveva un coinvolgimento internazionale. Poi però è iniziata la guerra che ha reso più difficile trovare un modo per tornare a un fatto che all’improvviso appariva molto distante. Io avevo iniziato a lavorarci nel 2019 raccogliendo i materiali di archivio anche quelli rimasti inediti.

Perché proprio l’abbattimento dell’MH17?

Mi sembrava un punto di partenza molto preciso da cui esplorare il funzionamento della propaganda russa. Avevano prodotto molte testimonianze per occultarlo. Inoltre penso che aiuti a capire che la guerra con la Russia non è iniziata lo scorso anno ma che era già lì. L’aspetto più spaventoso è la sicurezza dei russi di non subire conseguenze per quanto avevano fatto; però se si possono uccidere trecento persone senza dover risponderne a nessuno a quel punto perché non attaccare un intero Paese? Non è stato semplice riposizionare il film, avevo quasi finito quando c’è stata l’invasione russa, e all’improvviso mi sembrava che non avesse più senso. Ho avuto bisogno di molto tempo per riorganizzarne la struttura e il concept trovando una nuova direzione.

Queste ultime settimane sono state molto violente, con attacchi ripetuti contro le città ucraine. I russi dicono che non si fermeranno, lei cosa si aspetta?

Noi vogliamo la vittoria, non mi interessa cosa dicono i russi, la cosa certa è che in Ucraina cerchiamo di proteggere la nostra terra e la nostra cultura. Questa è una guerra di identità, i russi sono come un fratello maggiore che pensa che il fratello più piccolo non ha il diritto di scegliere la propria vita. La società internazionale deve capire che abbiamo di fronte dei criminali, è chiaro che non vale per tutti i russi, ci sono tra loro molte persone che non ragionano così, ma è il potere che decide. Nessuno vuole combattere, non è una scelta che piace, non c’è però un altro modo per resistere e non farsi cancellare dai russi.