Neanche di fronte alla Rada Arsen Avakov, uno degli uomini più influenti e controversi sulla scena politica ucraina, ha spiegato la ragione che lo ha spinto a lasciare il ministero degli Interni.

MA LA SCELTA DI DIMETTERSI, accolta ieri pomeriggio in Parlamento con 291 voti favorevoli su 450, segna l’inizio di una nuova fase nelle vicende del paese: non è detto, tuttavia, che si tratti di una fase positiva. Per sette anni Avakov ha mantenuto il controllo su un ufficio centrale per gli equilibri di potere, con tre diversi presidenti e un elenco di scandali che avrebbe travolto qualunque carriera, come l’arresto di un figlio in un caso di tangenti legato a forniture per l’esercito.
Sotto la guida di Avakov il budget degli Interni ha raggiunto il 3 per cento del pil e il numero dei dipendenti è salito a 350.000 unità dopo l’ingresso di 60.000 uomini della Guardia nazionale. Proprio nei rapporti con i paramilitari sta una parte della sua forza.

È STATO LUI, NEL 2014, a organizzare i primi volontari nella regione di Kharkiv per le operazioni antiterrorismo lungo il confine con la Russia. Da Kharkiv proviene anche Andrey Biletsky, il leader del Battaglione Azov e del suo braccio politico, il Nazionalny Korpus, di ispirazione neofascista. Quella stessa estate, nel distretto di Slovyansk, a un centinaio di chilometri da Kharkiv, sono stati uccisi a colpi di mortaio il fotoreporter Andrea Rocchelli e il suo compagno di viaggio Andrei Mironov. Per il ruolo nel duplice omicidio il tribunale di Pavia ha condannato in primo grado a ventiquattro anni di carcere Vitaly Markiv, un uomo della Guardia nazionale con doppio passaporto, ucraino e italiano. In appello la Corte di Milano ha scagionato Markiv per non avere commesso il fatto a causa di un vizio di procedura, confermando, però, le responsabilità della Guardia Nazionale.

Questo processo, presentato in patria come una «guerra» dell’Italia contro l’Ucraina diretta dalle autorità russe, è stato per Avakov l’occasione di una ulteriore ascesa sul piano politico conseguita attraverso due elementi: una potente campagna propagandistica dentro e fuori i confini ucraini, e pesanti interferenze sulle istituzioni italiane.

LA RIVALITÀ con il presidente, Volodymyr Zelensky, che aveva sostenuto alle ultime elezioni, si è fatta più intensa negli ultimi mesi. Eppure, a Kiev, molti sostengono che la decisione di lasciare il posto dipenda piuttosto da recenti contatti con i rappresentanti di governi stranieri. In questo caso non si tratta tanto dell’incontro a giugno con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, nel corso del quale è stata firmata un’intesa sullo scambio di dati fra polizia italiana e forze di sicurezza ucraine i cui dettagli sono ancora riservati, bensì il vertice con un alto funzionario del dipartimento di stato americano, George P. Kent, avvenuto lunedì, poche ore prima che Avakov rimettesse l’incarico nelle mani della Rada e di Zelensky.

Kent guida da una settimana l’ambasciata in Ucraina, è un incarico temporaneo per bonificare una sede finita ripetutamente al centro del dibattito politico negli Stati Uniti, dagli affari di Hunter Biden a quelli più recenti di Rudy Giuliani. La visita al ministero dell’Interno è stata la prima mossa ufficiale del nuovo ambasciatore, e le dimissioni di Avakov ne sarebbero diretta conseguenza.

L’IPOTESI PIÙ DISCUSSA è che Avakov non voglia farsi trovare in una posizione di potere nel momento in cui gli eventi dovessero convincere il governo a mostrare maggiore sobrietà nei colloqui sul Donbass. Diversi elementi portano a pensare che il clima diplomatico stia mutando, dai contatti frequenti fra la Casa Bianca e il Cremlino all’improvvisa apertura di Zelensky nei confronti della Cina: possiamo diventare il vostro «ponte per l’Europa», ha detto il presidente ucraino martedì in un colloquio telefonico con il collega cinese, Xi Jinping. Fuori dal suo ministero, Avakov potrebbe intestarsi la guida dell’opposizione: un’opposizione radicale e basata su strutture militari, alla quale sino a questo momento è mancato soltanto un vero leader per ottenere anche un peso politico.