Oggi, nella Carolina del sud, il grande favorito è Donald Trump. Se davvero, come dicono i sondaggi, sarà lui il vincitore delle primarie repubblicane in questo stato meridionale conservatore, avrà conseguito lo status di front runner nel folto drappello di aspiranti alla nomination presidenziale del Grand Old Party. Fosse davvero così, da questo momento in poi la via verso l’incoronazione alla convention di Cleveland, a metà luglio, sarebbe agevole per il miliardario che cavalca l’odio.

Retrospettivamente, proprio questa tappa potrebbe essere ricordata come l’inizio della fine per Trump. Avrà i voti della maggioranza bianca, in prevalenza evangelica, anticattolica, che la pensa come lui. Certo, sono elettori che adorano sentirlo sproloquiare di muri e di messicani da rispedire a casa e di islamici da disprezzare. Sì, li avrà i loro voti. Ma poi, negli stati dove quegli elettori non sono maggioranza ma ormai minoranza?

La verità è che le parole del papa su Trump sull’aereo di ritorno dal viaggio in Messico sono piombate come un macigno sulla sua strada presidenziale. Altro che scomunica. Molto di più.

L’elettorato ispanico difficilmente voterebbe un candidato che, per sottrarre voti di bianchi rancorosi ai suoi rivali conservatori, conduce la sua campagna come una crociata contro l’immigrazione, e lo fa con toni di veleno razzista verso le minoranze e gli ispanici in particolare. Adesso, dopo le parole del papa latino, quell’elettorato gli sarà contro con ancora più convinzione e legittimazione, e in stati-chiave per le presidenziali, dove il voto ispanico è decisivo, l’opposizione nei confronti di Trump sarà militante e costringerà gli altri candidati a definirsi anche in rapporto al conflitto aperto da Francesco. Con il papa o contro il papa?

Il pontefice argentino, con le sue parole semplici e chiare, ha dunque determinato il corso futuro della campagna elettorale americana. Non solo negli stati dove è forte la componente ispanica. Negli stati dove pesa elettoralmente la classe lavoratrice cattolica di origine irlandese, italiana, polacca, tedesca, ci sarà una componente non trascurabile che darà ascolto alle parole fulminanti di Francesco: Trump «non è un cristiano». Sono gli stati nei quali anche piccoli movimenti di voti in un senso o in un altro fanno la differenza.

E quanti vescovi, quanti cardinali, quanti preti, suore, potranno rimanere ancora fermi, sordi alle parole del papa, la superstar che ha ammaliato anche i non cattolici nella sua visita recente negli Usa e con il suo storico discorso di fronte al Congresso?
I massimi giornali italiani banalizzano quanto ha detto il papa e la reazione di Trump come fosse un incidente diplomatico. Corriere e Stampa hanno interpellato un “esperto” di mondo cattolico come il reaganiano Mike Novak per commentare (criticare) le parole di Francesco su Trump. Idea indecente, innanzitutto giornalisticamente: è come chiedere ai cardinali Bertone o a Scola o al leader del Family day cosa pensano di Bergoglio. Ed è anche assurdo discettare, come fanno altri commentatori, se il papa possa o non possa intervenire nelle vicende americane, perché l’America sarebbe storicamente allergica alle ingerenze di un capo religioso, per giunta capo di stato straniero. In nessun altro paese la religione, Dio, pastori, leader di sette religiose, lobby religiose, sono presenti, esibiti e attivi nell’arena politica quanto lo sono in America. E certo questi acuti osservatori non hanno neppure letto quanto ha dichiarato il più insidioso rivale di Trump in campo repubblicano, John Kasich: «I am pro-Pope», sto col papa.

Francesco fa scandalo, non perché faccia politica ma perché fa il papa. Chi predica il Vangelo, dopo aver visto il muro tra il Messico e l’America, non può tacere, non può non rispondere, come ha risposto, a una domanda specifica su un tipo come Trump che potrebbe un giorno diventare presidente degli Stati Uniti. Certo, il papa sa che ogni sua risposta avrà un incredibile rimbalzo politico. Ma la sua bravura è proprio nel suo coraggio di leader morale, unito alla consapevolezza dell’enorme potere che hanno le sue affermazioni.

L’impatto del voto ispanico sulla corsa repubblicana sarà evidente nei caucus in Nevada mercoledì prossimo. Ma intanto oggi quel voto sarà osservato con altrettanta attenzione nelle primarie democratiche in quello stesso stato. Di nuovo, anche qui, il vantaggio enorme di Hillary su Bernie, basato sul consenso dei latinos, si è molto assottigliato nelle ultime ore e potrebbe esserci una sorpresa amara per l’ex-segretario di stato. A quel punto un buon risultato di Sanders, non necessariamente una vittoria netta, conferirebbe al senatore del Vermont lo status di legittimo aspirante alla nomination…

Sanders è un politico che spesso è accostato a Francesco, per l’eguale attenzione ai temi della giustizia sociale e della lotta alle diseguaglianze (anche se Bernie si schermisce: «Non sono radical quanto lo è il papa»). Non si può andare tanto oltre in queste connessioni, che, nei tempi che viviamo, non sono però né del tutto casuali né effimere. Esse avvengono in una fase di trasformazione epocale che vede protagonista la comunità latina – oltre i confini dell’America del suo insediamento storico – nell’America settentrionale un tempo bianca e “anglo”. E sarà una coincidenza anche questa, certo è che l’annuncio della visita di Barack Obama a Cuba è un fatto reale mentre solo un paio d’anni fa sarebbe stata archiviata come lo strampalato pio desiderio di un marziano.

Francesco è in sintonia con questa trasformazione in atto, e può e vuole influenzarla. Così lo è Obama. E né Obama né Francesco possono consentire a un miliardario senza scrupoli di comprarsi la Storia, per deviarne il corso e farla tornare indietro, molto indietro.