A ventotto anni dalle sue dimissioni estreme e definitive, sentiamo ancora intatta la nostalgia ma anche il vuoto della sua assenza. Non c’è incontro, riunione, convegno, assemblea di movimento dove Alex non venga in qualche modo ricordato, citato, rimpianto. Ci manca, ma lo sentiamo anche fortemente vicino, compresente. Alla domanda ricorrente «perché?» non ci può essere risposta, ma ognuno di noi un senso a quella morte lo vuole dare: forse a schiacciarlo è stato il troppo amore, la troppa compassione, il farsi carico senza limite dei pesi altrui.

Come il suo amato San Cristoforo, Alex aveva preso sulle spalle un bambino, un progetto, per portarlo all’altra riva, ma ancor prima della fine della traversata si è accorto che aveva accettato un compito troppo gravoso, doveva mettercela tutta, ci voleva uno sforzo enorme, per arrivare di là. Non ce l’ha fatta, Alex, a concludere la traversata del fiume, stanco e oberato ha religiosamente accettato il suo calvario; ma la preziosa eredità di idee ed azioni che ha lasciato, ora la ritroviamo sparsa ovunque, dall’Enciclica di Papa Francesco “Laudato si’” fino alla Campagna nonviolenta di «Obiezione alla guerra».

La figura di Langer piace molto ai giovani di oggi. Lo sentono attuale, vero, coerente. Offre loro un’idea di politica così diversa e bella rispetto alla decadenza e alle miserie cui assistono nel quotidiano circo trasmesso dai media. Le sue parole hanno la forza della verità. Lo stile di Alex sta nel legame tra mezzi e fini come etica politica.

Nel Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica, scrive (e sembra davvero rivolto a noi oggi): «Una necessità si erge pertanto imperiosa su tutte le altre: bandire ogni forma di violenza, reagire con la massima decisione ogni volta che si affacci il germe della violenza etnica, che – se tollerato – rischia di innescare spirali davvero devastanti e incontrollabili. Ed anche in questo caso non bastano leggi o polizie, ma occorre una decisa repulsa sociale e morale, con radici forti: un convinto e convincente no alla violenza». Il «convinto e convincente no alla violenza» è per me una definizione essenziale della nonviolenza.

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Non ha bisogno di specificare «senza se e senza ma», o «con tanti se e tanti ma», o di fare distinguo tra violenza dell’aggressore e violenza dell’aggredito. «No alla violenza», e tutti capiscono cosa significhi. È un no chiaro e deciso, ma deve essere anche «convinto e convincente».

Convinto. Chi rifiuta la violenza deve aver fatto un percorso interiore, deve esserne intimamente persuaso direbbe Capitini, deve rifiutare innanzitutto la propria violenza, quella che viene da dentro di sè, prima di poter ripudiare quella esterna, degli altri.

Convincente. Il rifiuto della violenza non può essere uno slogan, una bandiera, un precetto. Diventa un messaggio positivo se chi lo riceve ne vede l’utilità, ne sperimenta l’efficacia, se modifica in meglio la realtà. Se si è convinti si riesce ad essere convincenti. Si è convincenti se si è davvero convinti. La nonviolenza, diceva Gandhi, fa bene a chi la fa e a chi la riceve. Alex era un convinto della nonviolenza, nella parola e nell’azione, e perciò ancor oggi la sua testimonianza è convincente.

Qualcuno ha tentato di strumentalizzare il suo lascito nella Bosnia di ieri, per giustificare proprie scelte di campo nell’Ucraina di oggi. Ma «l’uso della forza», invocato da Langer per fermare i carnefici, non può essere confuso con la partecipazione alla guerra, così come la sua richiesta di «intervento della polizia internazionale» per il ripristino del diritto dei popoli, non può essere spacciata come favorevole all’invio di armi nel teatro bellico.

Lasciamolo in pace, senza tirarlo in ballo per fargli dire da che parte sarebbe stato oggi. I suoi insegnamenti sono scritti: dalla parte delle vittime, delle minoranze, della convivenza, della pace con la natura e fra gli umani, degli obiettori di coscienza a tutte le guerre. A noi tocca di continuare in ciò che era giusto. Solo così lo si rispetta.

* Presidente del Movimento Nonviolento