«Il danno è già stato fatto» aveva detto il premio Nobel Joseph Stiglitz, qualche giorno prima del referendum inglese. Lo stesso titolo è comparso ieri in prima pagina sul Sole24Ore, quando ancora l’altalena dei dati non permetteva di prevedere una conclusione sicura. Intendevano dire che comunque il calo della sterlina era già in atto, la diversificazione degli spread pure, il calo delle principali borse anche. Anche noi avevamo scritto che quella inglese si presentava come una lose-lose situation.

Si tratta di una condizione nella quale, qualunque fosse stato l’esito della consultazione, non ne sarebbe derivata una buona cosa per i popoli europei e per quello dei migranti. Infatti, anche in caso di vittoria di Remain il Regno Unito avrebbe mantenuto la sua condizione di coinquilino privilegiato nell’edificio europeo. Già David Cameron per vincere un referendum da lui stesso indetto non per amore di democrazia diretta, quanto per smontare la pressione delle destre, aveva ottenuto larghe concessioni da parte della Ue, confermate alla vigilia del voto dalla Corte del Lussemburgo. In base a queste gli immigrati non avrebbero avuto possibilità di accedere a diversi istituti del welfare inglese se non dopo cinque anni di lavoro.

Eppure non è bastato. La partita si è giocata sui migranti e l’hanno vinta coloro che sono più ostili ad essi. Infatti Brexit passa nella fascia d’età ultracinquantenne e tra i settori meno istruiti, tra coloro che traducono in rancore fondate preoccupazioni per il proprio futuro. Tra i due corni, è stato scelto il peggiore. Il danno già fatto verrà moltiplicato, sia dal punto di vista politico, dando fiato a sciovinismi, razzismi e xenofobie di ogni specie e mettendo a serio rischio non solo la crisalide della costruzione europea, ma anche l’unità della Gran Bretagna, visto il voto nettamente difforme in Scozia e nell’Irlanda del Nord.

Intanto si diffonde il classico panico, nel nostro continente e oltreoceano, accompagnato come sempre da manovre speculative di ogni tipo. Il contagio è immediato. Piazza Affari, secondo alcuni fan di Sala, aspirerebbe a sostituirsi addirittura alla City di Londra in un prossimo futuro – quella City che Saviano in una intervista al Guardian ha bollato come centro del riciclaggio internazionale, che sarebbe ancora più libero se fuori dalla Ue -, ma intanto perde di più che in occasione del crack della Lehman, di più dell’11 settembre, scendendo a livelli che aveva toccato solo nel 1994.

Sono i titoli bancari a spingere verso il basso, dalla Bpm a Intesa San Paolo, passando per Unicredit. Francoforte e soprattutto Parigi vanno peggio di Londra. Wall Street vede il Dow Jones in discesa e così il Nasdaq. Idem l’indice S&P500: la peggiore apertura da trent’anni a questa parte. Tokyo perde nella mattinata più di quanto le successe dopo l’incidente di Fukushima. Il crollo della sterlina ha battuto quello del “mercoledì nero” di quel 1992, quando la crisi valutaria spinse la Gran Bretagna fuori dallo Sme e l’Italia venne messa in ginocchio, salvata solo dalla concertazione con i sindacati, complice la maxi speculazione di George Soros. Naturalmente anche l’euro ne ha immediatamente risentito, mentre gli spread si sono allargati. La differenza di rendimento fra Btp e Bund tedeschi è cresciuta fino a 185 punti base; mentre i titoli di stato tedeschi restano in terreno negativo. Secondo l’ad di Intesa San Paolo, Carlo Messina, gli investitori più speculativi che si muovono con una logica da hedge fund hanno puntato da tempo contro l’Europa e hanno visto nel referendum inglese un’occasione da non mancare.

Più di un dietrologo ha fatto capire che tale attivismo è all’origine dei sondaggi sballati circolati in precedenza, che non sarebbero quindi solo frutto di un marchiano errore statistico. La situazione sarebbe ancora peggiore se la Bce non avesse già cominciato a operare secondo lo sperimentato interventismo già annunciato da Draghi anche in questa occasione.

Non sta crollando il mondo. Ma lo scossone è di quelli storici. Il capitale finanziario quindi si riorganizza. Dal Giappone pensano a operazioni con la Fed per stabilizzare a breve i mercati. Tempo ve ne è, visto che ci vorranno almeno due anni – ma vi è chi calcola di più – di negoziati per ri-regolare il rapporto fra Gran Bretagna e Bruxelles.

Ma proprio la lunghezza di un simile periodo aumenta il baratro dell’incertezza. Non solo per gli operatori finanziari, ma anche per il mondo politico, già segnato da instabilità, malgrado tutte le torsioni istituzionali e costituzionali (Renzi docet) fatte su indicazione del famoso documento della J.P. Morgan per assicurare stabilità. Se niente potrà essere come prima dopo il Brexit, come è stato detto da più e diverse parti, significa che o si va verso l’implosione dell’Europa – magari attraverso soluzioni intermedie ma peggiorative come la istituzionalizzazione delle due velocità o dell’Europa a sei -, oppure verso un suo radicale cambiamento, Trattati compresi.

Per questo acquista un significato particolare la recentissima decisione della Bce di permettere alle banche greche un rifinanziamento a tassi normali (e un domani forse l’accesso al Quantitative easing) che può dare fiato alla prostrata economia ellenica, allontanando le nuove paure di un Grexit. Per questo, sul terreno più politico, le imminenti elezioni spagnole si caricano di un significato che va al di là dei confini iberici. Infatti senza massa critica non si cambia questa Ue.