Quale sarà il futuro del servizio pubblico televisivo? E’ difficile prevedere il futuro. In genere la cosa migliore è analizzare il presente per coglierne le tendenze. E la tendenza in atto, a partire da Netflix, va in direzione di una televisione on demand. L’on demand rappresenta una vera e propria rivoluzione del medium televisivo, perché sancisce la fine della tv così come noi la conosciamo. E infatti le caratteristiche dell’on demand vanno in direzione opposta alle scelte generaliste. In primo luogo sparisce il palinsesto, che ha funzionato sino ad oggi come orologio sociale, scandendo la quotidianità delle nostre vite (h. 20 tg, h. 21 varietà, seconda serata talk show…).

L’effetto più drammatico della sparizione del palinsesto è la perdita della sincronia e quindi della condivisione. Condividere in un tempo comune un dibattito, crea uno spazio sociale, un’agorà virtuale che contribuisce alla partecipazione diretta agli eventi politici e di costume. Pensiamo all’importanza del talk show e della televisione all’epoca di Mani Pulite: fu la televisione a traghettarci fuori dalla Prima Repubblica, a sostituire alla politica grigia e anonima dei partiti, la politica del leader, a identificare il partito con la persona capace di dibattere in pubblico, di “caricare” l’elettorato. Tutto questo sta sparendo o è già sparito. La crisi del talk show è anche una crisi mediatica. L’on demand è per la fiction (cinema, serie) o per lo sport. L’evento informativo e il dibattito sono sempre più relegati sulle reti tematiche d’informazione.

Attualmente il dibattito sulla riforma della Rai non riguarda tanto la missione del servizio pubblico, quanto la sua occupazione da parte dei partiti. Bene, una televisione on demand non si presta a nessuna occupazione, perché manca di spazi pubblici di discussione e di indottrinamento.

Però abbiamo esordito dicendo che si tratta solo di tendenze. Non sappiamo in quanto tempo si realizzeranno e se si realizzeranno totalmente. E’ probabile che la televisione generalista sopravviva, pur perdendo peso. In realtà la tv on demand ha un limite nell’essere un servizio a pagamento, mente la televisione tematica richiede interessi e competenze specifiche. Resterà sempre un segmento del pubblico che farà riferimento alla generalista, ma sarà la fascia di pubblico più dequalificata.

Quando parliamo di servizio pubblico ci riferiamo dunque ad una televisione generalista sopravvissuta alle reti tematiche per mancanza, da parte del suo pubblico, sia di capitale economico che culturale. E questa involuzione comincia a rendersi visibile. Nella sera di giovedì 23 aprile un programma come Il Segreto, telenovela spagnola costruita per un pubblico femminile e popolare, ha superato le tre reti Rai e ha raggiunto il 19,19% di share con 4.857.000 spettatori. Un programma di questo genere solo pochi anni fa avrebbe raccolto un’audience marginale (in gergo si direbbe un’audience di controprogrammazione). E’ a partire da questa tv che si pone oggi la domanda di come dovrebbe essere riformato il servizio pubblico televisivo.

Parlare di riforma del servizio pubblico televisivo può avere due opposti significati: stabilire la vocazione del servizio pubblico, il suo attuale significato, oppure, semplicemente, disciplinare l’occupazione da parte della politica nei confronti della televisione pubblica. In questa ultima direzione va la riforma di Renzi, come se cambiare leggermente chi nomina chi, potesse fare la differenza. D’altronde è comprensibile che il dibattito si sia arenato qui. La Rai nasce come una delle componenti dello stato sociale europeo. La sua funzione era pedagogica. Ed era di fatto considerata un complemento della pubblica istruzione. Da tempo questa funzione pedagogica è stata cancellata.

In epoca recente, con un mio piano di riforma Rai presentato provocatoriamente in occasione di una mia autocandidatura a presidente, io suggerivo di sostituire la vecchia concezione pedagogica, basata sulla valorizzazione della tradizione culturale europea, con una nuova funzione pedagogica, incentrata non tanto sul capitale culturale, quanto sul capitale intellettuale. In breve: lavorare sull’intelligenza anziché sulla cultura.
E’ evidente che, in un ciclo di smantellamento dello stato sociale, difficilmente la tesi della funzione pedagogica della tv può trovare accoglienza. Ma allora bisogna considerare l’ipotesi opposta.

Se la tv non alza il suo pubblico, è il pubblico che abbassa l’audience e di conseguenza il dibattito politico.

I partiti si preoccupano di occupare la televisione per ampliare il proprio elettorato. Ma c’è un ritorno dialettico che nessuno sembra considerare. L’audience è un fenomeno di livellamento verso il basso. Se questo livellamento avviene su un campione già selezionato come basso, perché residuale rispetto al consumo televisivo attivo, l’audience che ne scaturirà sarà sempre più elementare, rozza, aggressiva e la Politica non può non tenerne conto dato che dipende dai sondaggi. I politici cercano nella televisione una vetrina per indottrinare il pubblico. Ma, a sua volta, il pubblico della tv seleziona i politici in base a fattori di telegenicità, gradimento, e, appunto, audience. E, in una rete generalista residuale questi fattori saranno necessariamente tendenti al basso in una spirale discendente.

Prendiamo un fenomeno come Salvini che, in un breve tempo e senza alcun monopolio o controllo del mezzo televisivo, ha portato la Lega nei sondaggi a percentuali superiori a Forza Italia. Salvini funziona in televisione perché fa appello agli istinti peggiori: egoismo, vendetta, chiusura verso l’altro.

In una televisione non pedagogica sono sempre i valori più bassi a prevalere ed è la televisione che li impone alla politica, non viceversa.

Una televisione generalista residuale può essere il brodo di coltura degli istinti peggiori e rischia di far involvere il dibattito politico.