Leonore E. Walker è una psicologa americana, pioniera nella teoria sociale che spiega i modelli di comportamento in una relazione abusante e che ha fatto nascere la consapevolezza dell’esistenza della violenza di genere, fino ad allora trattata come questione individuale e caratteriale e non come un fenomeno sociale. Agli inizi degli anni Settanta Walker ha fondato il Domestic Violence Institute, società no profit che fornisce supporto alle vittime di violenza domestica in tutto il mondo.

Dopo aver intervistato più di 1.500 donne che avevano subito violenza dal partner, nel 1979 ha sviluppato il modello chiamato «ciclo dell’abuso», diviso in tre fasi: innalzamento della tensione, violenza e riconciliazione.
Molto è nato dalle madri che venivano a parlare dei problemi psicologici dei loro bambini. A volte quelle madri mostravano i segni fisici degli abusi, così abbiamo iniziato a fare loro delle domande. Era la metà degli anni ’70, lavoravo nella zona di New York e si parlava davvero di femminismo, si parlava dell’Organizzazione nazionale delle Donne, ci stavamo organizzando.

Fino ad allora sembrava che le relazioni abusanti avessero a che fare con delle dinamiche personali.
C’era la convinzione che, se una donna rimaneva in una relazione in cui subiva abusi, ci doveva essere qualcosa in quella relazione che le faceva bene, che le piaceva. E questo portava a pensare che fosse un problema di personalità della donna. Ma quando ho iniziato a intervistarne una dopo l’altra, ognuna con una personalità diversa, ho cominciato a capire che la questione aveva molto più a che fare con una società che non ritiene gli uomini responsabili del loro comportamento. Abbiamo iniziato a creare luoghi in cui le donne potessero andare se volevano troncare la relazione. Il problema è che le cose peggiorano quando le donne vogliono interrompere la relazione. Così abbiamo coinvolto il sistema legale: bisognava addestrare la polizia e le corti ad ascoltare. Non bastava che la polizia effettuasse un arresto perché la donna, per paura o altre ragioni, non veniva a testimoniare. E il caso veniva archiviato. Abbiamo insegnato alla polizia come scrivere i verbali, così che contenessero già le prove: non c’era più bisogno che la donna testimoniasse. Poi abbiamo creato i gruppi di supporto delle vittime in tribunale per sostenere le donne ai processi. Passo dopo passo siamo riusciti a cambiare il sistema giudiziario. A volte si torna un po’ indietro, ma la società ha capito che le donne vengono picchiate non perché a loro piace, non perché se lo meritano, ma perché agli uomini è permesso farlo.

Quale è stato uno dei problemi maggiori?
Chiudere una relazione abusante è molto pericoloso. Abbiamo dovuto trovare modi per aiutare le donne a ottenere sostegno. Abbiamo messo insieme programmi di consulenza psicologica, programmi negli ospedali per gli infermieri e i medici. È stato un processo lento, ma ogni volta che vedevamo una barriera nel sistema, lavoravamo con il sistema per apportare i cambiamenti. Abbiamo avuto successo nella maggior parte dei settori tranne uno: la custodia dei figli. Se la donna lascia la relazione, sarà comunque costretta a condividere la custodia con l’aggressore. Ciò è pericoloso per lei e per i bambini.

Quanto è cambiata la società dal 1979?
Penso che la società sia cambiata in parte, non sono sicura che gli uomini siano meno violenti, ma le donne sono meno disposte a sopportarlo. E c’è più supporto per uscire da quelle relazioni pericolose. Pochissimi uomini interrompono gli abusi. Sappiamo che esiste ancora ciò che chiamiamo controllo coercitivo, perché in realtà la violenza di genere riguarda il potere e il controllo.

Ha sottolineato spesso l’importanza di ascoltare le donne.
Spesso quando noi donne parliamo siamo emotive, la gente non lo sopporta. Vuole che le persone siano calme e razionali, ma è molto importante capire che le donne non si inventano le violenze. Dobbiamo ascoltare ciò che dicono le donne e proteggerle nel miglior modo possibile.

Qual è il ruolo dei media?
I media non devono cercare un motivo per la violenza e chiedersi se la donna se lo meritava, come si è fatto con le vittime di stupro. Non importa quali vestiti indossa, non ha il diritto di violentarla. I media devono sottolineare questo tipo di eventi coercitivi, piuttosto che chiedersi se lei se lo è meritato. La violenza di genere è un intero modello di comportamento e dobbiamo guardare a quel modello a partire dalla richiesta di indossare determinati abiti o acconciare i capelli in un certo modo, o non uscire con un amico. La società è patriarcale, vogliamo convincerci che è lei ad aver sbagliato e che a noi non sarebbe successo. Ma la verità è che potrebbe succedere a chiunque di noi di potrebbe finire con un uomo violento.

Spesso si pensa che l’uomo abusante sia un mostro e non la persona gentile della porta accanto.
Non è un mostro, può essere molto gentile, affettuoso. A casa può essere abusante e in pubblico mostrare la bella faccia.

A volte si accusa il femminismo di aver rotto gli equilibri e peggiorato le cose.
È facile incolpare il femminismo, ma le donne avrebbero sempre dovuto avere quei diritti. La società sta cambiando. Ora sappiamo che il fattore di rischio più importante per un uomo violento è essere cresciuto in una casa dove ha visto il padre essere violento con la madre. Non è così per le donne. Il fattore di rischio più elevato per una donna è proprio il fatto di essere donna.