Quando i carri armati di Putin sono entrati ufficialmente nel Donbass, la sera del 21 febbraio scorso, a Donetsk si è esultato pochino. La tv locale ha mostrato qualche timido carosello di auto, mentre alcuni giovani sventolavano in piazza una mezza dozzina di bandiere della Federazione Russa. Certo non si sono viste sfilare le grandi folle del 9 maggio – giorno della vittoria contro il nazifascismo – e l’impressione, anzi, era che il numero di giornalisti e fotografi fosse quasi superiore a quello dei manifestanti. Otto anni di guerra e bombardamenti sono assai, ed è chiaro che la gente, nel bacino del Donec, comincia ad averne abbastanza. A Kyivs’kyi Rajon, tra le campagne di Spartak, a Petrovs’kyi e Kirovs’kyi – nelle periferie del capoluogo separatista – le famiglie vivono nei sotterranei dall’estate del 2014.

Qui il conflitto fa ormai parte della vita quotidiana, così come la mancanza cronica di lavoro, l’assenza di prospettive e l’eventualità – tutt’altro che remota – di essere centrati nottetempo da un missile o da una granata: un destino a dir poco sciagurato, di cui questa regione storicamente laboriosa avrebbe volentieri fatto a meno. Oggi, quando si parla di Donbass, viene normale pensare allo scontro etnico tra ucraini e russi (il “genocidio”, come lo ha definito Putin), ma è un fatto che fino a meno di un decennio fa di tutto ciò non ci fosse praticamente traccia.

Nel 2001, ad esempio – stando ai censimenti dell’epoca – i residenti di etnia ucraina erano il 58% nell’Oblast’ di Lugansk e il 56,9% in quello di Donetsk. Molti di essi parlavano correntemente il russo, così come la maggior parte dei loro omologhi in tutto l’est del Paese. Il partito secessionista filo-moscovita “Donetskaya respublika” – dalle cui fila sarebbero poi usciti i principali leader del movimento separatista – era un gruppuscolo privo di seguito popolare che quando andava bene riusciva a trascinare in piazza una cinquantina di persone. Come, nel giro di pochi mesi, si sia potuti passare da questo scenario a quello attuale sarà materia di studio per storici e sociologi nei decenni a venire.

Certo è che il Donbass non è una regione ricca. Il carbone di cui abbonda il suo sottosuolo fa gola ormai a pochi. Gli impianti industriali risalgono in buona parte all’epoca di Brézhnev – se non a quella di Krusciov – e la maggior parte di essi giacciono ormai abbandonati, vittime dell’incuria e dei bombardamenti. Eppure questa linea di terra misera e pianeggiante, stretta tra il fiume Kal’mius e le rive gelide del mare d’Azov, rappresenta oggi la principale linea di faglia nel grande conflitto tra Est e Ovest.

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Qui, con ogni probabilità, si combatterà nelle prossime settimane la battaglia decisiva della guerra d’Ucraina, che deciderà le sorti della cosiddetta “Operazione speciale” messa in piedi il 24 febbraio da Vladimir Putin.

È facile oggi – specie dalle nostre latitudini – puntare il dito contro i “ribelli filorussi” che gettano odio contro i loro ex fratelli ucraini. Ma dove eravamo quando le case di Donetsk, di Avdiïvka e Mariupol erano rase al suolo dalle bombe e dalle granate, durante gli otto anni di questo conflitto sanguinario e silenzioso che dal 2014 ha seminato oltre 14mila morti su entrambi i lati del fronte? Dove eravamo, quando le sirene della propaganda nazionalistica – amplificate dalla povertà e dalla disoccupazione – aizzavano gli uni contro gli altri migliaia di esseri umani che fino al giorno prima avevano convissuto in pace, sotto la stessa bandiera?

Nel novembre 2014, tra le trincee separatiste alle porte del villaggio di Pisky, ci capitò di assistere a una scena incredibile.

Mentre imbracciava il mitragliatore e sparava raffiche contro le trincee ucraine, un comandante filorusso ricevette una telefonata sul cellulare. Era la madre, la quale lo avvisava che un suo ex compagno di scuola, arruolatosi con l’esercito di Kiev, era appena stato ucciso in combattimento. Il comandante scoppiò in lacrime, maledicendo la guerra e certamente anche se stesso.

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È una scena alla quale oggi, con ogni probabilità, non potremmo più assistere. Troppe cose sono successe e troppi interessi sono entrati in gioco. Mentre nell’autunno 2014 il presidente ucraino Petro Porošenko tesseva le lodi dei bombardamenti indiscriminati (“I nostri figli andranno a scuola e all’asilo – disse -, mentre i loro staranno rintanati nelle cantine!”), i russi avevano gioco facile nel presentarsi come liberatori e distribuire generi alimentari ai profughi in fuga dalle macerie. Alle giovani generazioni del Donbass i soldati lealisti venivano descritti come esseri feroci, “tutti con il Mein Kampf nello zaino”. Le bandiere gialloblu venivano bruciate nelle piazze, mentre pochi chilometri più in là, appena oltre le trincee, la stessa sorte toccava ai vessilli moscoviti e alle povere vestigia dell’era sovietica.

Chi ci ha guadagnato in tutto ciò? Per comprenderlo bisogna scendere nelle miniere clandestine di carbone, le “kopankas”, che dal 2014 rappresentano l’unica fonte di guadagno per migliaia di operai rimasti disoccupati a causa del conflitto. Laggiù, in tunnel alti poco più di un metro, si fatica sei giorni su sette per una paga di duecento dollari al mese. I proprietari, fino almeno al 2017, erano spesso gli stessi leader separatisti, i quali – in barba alla propaganda – rivendevano poi il materiale così estratto ai loro colleghi ucraini. Business is business, nonostante la guerra – o grazie ad essa.