È necessario ripensare le forme e gli strumenti della rappresentanza politica, anche alla luce del risultato chiaro del referendum costituzionale. Dopo avere per anni propagandato le virtù di una democrazia maggioritaria in salsa italiana, del tutto sconosciuta nell’applicazione manichea che ne hanno dato i suoi laudatori nel nostro paese, bisogna riconoscere che la conseguenza più importante del voto referendario, soprattutto in chiave programmatica, è la riscoperta della necessità di una rappresentanza piena, efficace, sostanziale delle molteplici manifestazioni della società italiana.

Il sistema politico italiano non soffre – come continuano a pensare incredibilmente alcuni dei sostenitori renziani raccolti al Lingotto torinese – di un problema di governabilità. L’Italia attraversa, da almeno una trentina d’anni, una profonda, patologica, forse irreversibile crisi di rappresentanza, che deriva massimamente dall’incapacità della classe politico-partitica a incanalare e dare risposte soddisfacenti a un pluralismo sociale che, anche nella sua conflittualità, non trova espressione all’interno delle nostre istituzioni.

Su questo punto, ha certamente ragione Gaetano Azzariti (il manifesto, 14 marzo) a spostare l’attenzione sulle forme reali della democrazia costituzionale e, in particolare, sulle dimensioni sociali che precedono e dovrebbero sorreggere le strutture istituzionali della rappresentanza politica. Ma c’è un aspetto cruciale sollevato da Azzariti che non può essere eluso troppo sbrigativamente. Anche ammesso che le prossime elezioni si svolgano con un sistema d’impianto proporzionale (ahinoi, anche il Porcellum e l’Italicum, nella loro insita schizofrenia, lo erano), c’è il rischio di «garantire una rappresentanza solo dimidiata, di partiti privati di legittimazione sociale». Proprio così, e a mio avviso non c’è solo il rischio, ma forse una assoluta certezza. Ed è per questo motivo che dovremmo sbarazzarci, almeno per un po’, del finto derby tra proporzionalisti e maggioritaristi e domandarci, invece, se non sia il caso di recuperare – meglio tardi che mai – l’unico strumento che, nella situazione data, potrebbe ridare un senso e una sostanza alla rappresentanza politica.

vviamente, mi riferisco al collegio uninominale: uno strumento disprezzato dalla classe politica quasi nella sua interezza proprio perché la obbligherebbe a misurarsi e confrontarsi con i suoi pesanti deficit di rappresentanza. L’introduzione dei collegi uninominali obbligherebbe i nostri (aspiranti) rappresentanti a conoscere il territorio, risalire alle radici locali dei conflitti sociali e recuperare un rapporto stretto, non solo ipotetico, con i cittadini. Il rifiuto dei partiti a prendere in seria considerazione il recupero dei collegi uninominali è probabilmente la prova più chiara della sua efficacia.

È ovvio poi, come sottolinea sempre Azzariti, che non si può pensare di risolvere una crisi della rappresentanza come quella oggi in atto soltanto con qualche intervento, seppure ben congegnato, di ingegneria elettorale. Serve molto di più e molto altro, a cominciare da una riflessione sul ruolo (da riscoprire) del Parlamento e su una legge seria, costantemente attesa e puntualmente disattesa, sulla democrazia interna ai partiti politici. È da qui che dovrebbe partire una discussione sulle nuove forme della rappresentanza politica nel XXI secolo, anche avendo il coraggio di affrontare l’annosa questione dei rapporti tra gruppi di interesse (lobby) e decisori, siano essi politici o alti burocrati.

Nel nostro ordinamento, sta prendendo forma un patchwork normativo del tutto disorganico sul regolamento delle lobby e del loro operato. Un mix di regolamenti (nazionali e regionali), registri, codici deontologici che, in assenza di una disciplina nazionale seria e sistematica, rischia di generare esiti controproducenti, a tutto vantaggio delle lobby più influenti e a danno di quei gruppi e quelle associazioni che faticheranno a far arrivare la propria voce e i propri interessi al tavolo delle decisioni.

Ripensare forme, strumenti e strutture della rappresentanza politica non è certamente un pranzo di gala. Richiede una profonda elaborazione teorica e una pratica coerente e costante. La riflessione teorica, pur con una naturale diversità di approcci e sensibilità, sembra essere cominciata (e non da oggi). La messa in pratica, da parte della classe politica, è ancora del tutto assente.