Il Cern della salute potrebbe nascere davvero. Fino a ieri era solo una proposta all’Europa firmata dagli economisti Massimo Florio, Simona Gamba e Chiara Pancotti e sostenuta dal Forum Disuguaglianze e Diversità diretto da Fabrizio Barca allo scopo di sottrarre alle aziende il monopolio sullo sviluppo dei farmaci. Un’utopia, secondo i più. Invece è stata accolta tra le raccomandazioni formulate dalla commissione Covid-19 del Parlamento europeo in un rapporto appena pubblicato sulle «lezioni tratte dalla pandemia».

«Il parlamento europeo – scrive la commissione nel burocratese di Bruxelles – invita la Commissione Europea e gli Stati Membri a creare una infrastruttura europea pubblica di ricerca e sviluppo sulla salute che operi nel pubblico interesse per realizzare prodotti medicinali di importanza strategica per la sanità in assenza di una produzione industriale esistente, al fine di sostenere l’Unione europea nel superamento dei fallimenti del mercato, nel garantire l’approvvigionamento e prevenire possibili scarsità di medicine, contribuendo allo stesso tempo a aumentare la capacità di risposta nei confronti di nuove minacce sanitarie ed emergenze». In soldoni, si chiede all’Europa di dar vita a un’agenzia che sviluppi medicine e terapie pubbliche invece di delegare il compito a Big Pharma, soprattutto per quei bisogni di salute che al mercato non interessano. Il rapporto della commissione Covid-19 sarà messo ai voti in Parlamento il 12 luglio.

L’ANALOGIA TRA LA RICERCA biomedica e il Cern, il celebre centro di ricerca con sede a Ginevra, è calzante: nessun privato investirebbe nei progetti di ricerca della fisica delle alte energie. Non perché sia inutile. Dal Cern sono uscite applicazioni di uso comunissimo – dal web alla Pet – come effetti collaterali delle ricerche svolte per comprendere le interazioni fondamentali e le particelle elementari. Ma i rischi insiti nella ricerca scientifica spaventerebbero qualunque azionista. Specie quando, come fa il Cern, si privilegia la diffusione della conoscenza rispetto al monopolio brevettuale: nessuno ha mai pagato royalty al Cern per navigare sul web.

La tutela della salute soffre dello stesso problema della fisica teorica: le aziende farmaceutiche preferiscono investire in terapie redditizie nel breve termine, piuttosto che intraprendere programmi di ricerca di maggiore impatto sociale ma meno profittevoli. Inoltre, per difendersi dalla concorrenza le aziende si affidano ai brevetti, che per vent’anni concedono loro il monopolio sulle innovazioni, oltre a diverse norme anti-concorrenza supplementari. Non c’è nulla di strano, trattandosi di imprese quotate in borsa. Piuttosto, è peculiare il fatto che siano state le istituzioni pubbliche a lasciare campo libero all’impresa privata. Basti pensare che ancora fino al 1978 in Italia brevettare i farmaci non era possibile e che lo Stato, attraverso la partecipazione nel gruppo Montedison, disponeva di una rispettabile industria farmaceutica sostanzialmente pubblica. A aprire la strada alle multinazionali farmaceutiche furono una sentenza della Corte costituzionale che introdusse in Italia la proprietà intellettuale sui farmaci e la svendita dei settori di punta dell’industria italiana (la chimica, l’elettronica e, appunto, la farmaceutica) decisa dai governi della tarda prima repubblica.

DAGLI ANNI OTTANTA, in Italia e all’estero la produzione di farmaci e terapie si è fondata su una divisione del lavoro tra pubblico e privato ben precisa. La ricerca di base ad alto rischio si svolge in gran parte nelle università e negli enti di ricerca pubblici ed è sostenuta dallo Stato. I risultati più promettenti di questa attività vengono trasformati in prodotti industriali e brevettati dalle aziende farmaceutiche. Lo Stato – o le assicurazioni private laddove manca un servizio sanitario pubblico universale – ricompra la produzione farmaceutica per soddisfare i bisogni sanitari della popolazione, ai prezzi fissati in regime di monopolio dall’industria. In questo modo, lo Stato paga due volte: prima per la ricerca di base, poi per riacquistarne i risultati a caro prezzo dall’industria privata.

La commissione Covid-19 dell’Unione europea ammette che aver posto le ragioni del mercato davanti ai bisogni di salute ha ingigantito l’impatto della pandemia. «Le autorità pubbliche e le istituzioni private che stabiliscono gli obiettivi delle ricerche non hanno dato priorità agli investimenti sui patogeni ritenuti pericolosi per la salute pubblica», scrive. «Nonostante il potenziale pandemico dei coronavirus fosse già stato riconosciuto prima della pandemia di Covid-19, gli investimenti in ricerca e sviluppo sono stati limitati a causa della mancanza di interesse commerciale». Il rapporto riconosce anche che «l’abbondante finanziamento pubblico ha svolto un ruolo chiave nel ciclo di sviluppo del prodotto (i vaccini), insieme agli accordi di acquisto stipulati ancora prima dell’autorizzazione regolatoria». Secondo i calcoli di Florio, Gamba e Pancotti, la spesa pubblica per sviluppare e comprare i vaccini sarebbe stata pari a 30 miliardi, quasi il doppio dei 16 miliardi investiti dalle aziende.

Creare una infrastruttura di ricerca e sviluppo simile al Cern – ma Florio fa spesso riferimento anche a un altro esperimento virtuoso come l’Agenzia Spaziale Europea – dovrebbe riequilibrare il rapporto tra le ragioni del profitto e le priorità della ricerca pubblica. Non fanno paura solo le possibili pandemie, ma anche le emergenze già note e tuttora trascurate, come la mancanza di antibiotici per far fronte allo sviluppo di batteri resistenti. Il centro di ricerca immaginato da Florio, e ora raccomandato anche dalla Commissione europea sul Covid, potrebbe occuparsene.

NONOSTANTE L’INASPETTATO endorsement, dopo aver letto il rapporto europeo Florio rimane realista. «La portata politica della raccomandazione di creare una infrastruttura pubblica europea per vaccini e farmaci è alta», dice l’economista. «Tuttavia rischia di perdersi, data la dimensione prolissa del Rapporto, che elenca ben 617 raccomandazioni. Si torna in modo talora contraddittorio sugli stessi argomenti e, segnatamente, a volte si dà un giudizio acriticamente positivo sui diritti di proprietà intellettuale come motore dello sviluppo dei vaccini, pur riconoscendo che i brevetti hanno limitato l’accesso ai vaccini nel mondo. Occorre più coraggio per cambiare il modello dell’innovazione biomedica».

In effetti, il vento nuovo che si respira a Bruxelles non arriva al punto di mettere in discussione la proprietà intellettuale. Il rapporto «riconosce le preoccupazioni sui diritti di proprietà intellettuale e sull’accesso ai farmaci nei Paesi a basso e medio reddito, e sempre di più anche in quelli ad alto reddito». Ma allo stesso tempo afferma che «l’Unione europea deve mantenere un forte sistema di proprietà intellettuale per incoraggiare le attività di ricerca e sviluppo e la produzione in ambito sanitario e garantire che l’Europa rimanga innovativa e leader a livello mondiale».

Secondo l’economista Fabrizio Barca, che ha sponsorizzato la proposta, «il messaggio della ragione è in qualche misura passato. Ora dobbiamo moltiplicare i nostri occhi e la nostra pressione per sciogliere le ambiguità sui brevetti quando basati su ricerca e finanziamenti pubblici».