Dalla testa ai piedi, il settore del tessile e abbigliamento è l’emblema dell’obsolescenza programmata. Le collezioni si inseguono, passando subito di moda. La qualità, poi, è usa e getta. Un flagello per l’ambiente, un incubo per tanti lavoratori.

100 MILIARDI DI CAPI – abiti e calzature – sfornati a livello mondiale ogni anno dall’industria della moda: questa stima di McKinsey è del 2014; ma il trend è in aumento per via della fast-fashion, anzi ormai dell’ultra fast-fashion, venduta soprattutto online e veicolata dai social. E secondo il rapporto Volumes and destruction of returned and unsold textiles in Europe’s circular economy (della European Environment Agency, marzo 2024), ogni anno vengono distrutti prima dell’uso fra 264.000 e 594.000 tonnellate di tessili – il 4-9% dell’immesso sul mercato. Fanno 230 milioni di capi intonsi destinati a inceneritori e discariche europee, oppure spediti in altri paesi. Tutto compreso, fra abiti rottamati nuovi o poco usati, ogni anno nell’Ue vengono gettati 5,8 milioni di tonnellate di prodotti tessili.

IL 10% DELLE EMISSIONI TOTALI di CO2 a livello planetario: ecco il fardello climatico globale del settore secondo lo studio The environmental price of fast fashion (su Nature Reviews Earth & Environment). Infinite le ricadute, anche molto lontano. Dal deserto di Atacama diventato discarica di fibre, ai paesi africani costretti a seppellire o bruciare, quando la loro cultura del riuso e del recupero creativo viene sopraffatta dall’eccesso di materiali di cattiva qualità in arrivo. Fra spreco di materie prime e inquinamento, l’industria della moda è un settore produttivo vorace, pesante. Il 60% delle fibre tessili utilizzate sono sintetiche (e difficili da riciclare) e già dopo i primi lavaggi cominciano a rilasciare microplastiche, che finiscono nei mari. La filiera del cotone è irrorata di pesticidi e presenta condizioni di lavoro e di salario ai limiti della schiavitù.

60 MILIONI I LAVORATORI DEL SETTORE. In molti paesi sono sfruttati e corrono rischi anche mortali, noti da decenni grazie alla Clean Clothes Campaign (Campagna abiti puliti). Un’operaia tessile del Bangladesh guadagna in tutta la sua vita quanto il top manager o lo stilista di un’industria fashion in pochi giorni (rapporto Oxfam).

E DUNQUE CHE FARE? Il green-washing delle industrie galoppa, puntando al riciclaggio industriale; il Circular Fashion Report prevede «nuovi materiali sostenibili, nuovo design circolare, sistemi di riciclaggio dei materiali». Tutto, salvo una riduzione nel numero di capi sfornati. Ma Europarlamento e ministri dei paesi membri hanno raggiunto un accordo per il regolamento Ecodesign che – con l’orizzonte temporale del 2030 – punta a rivoluzionare l’approccio alla produzione dei prodotti tessili, capi di abbigliamento, calzature. Obbliga le aziende a migliorare qualità, longevità, riparabilità e riciclabilità dei prodotti. Non sarà più possibile distruggere l’invenduto. Inoltre la Commissione europea propone la «Responsabilità estesa del produttore» (Epr) – anche per il tessile – che andrebbe a emendare la direttiva 98/2008 sui rifiuti.

DA TEMPO, IL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE offre a chi vuole comprare un capo nuovo la possibilità di non sbagliare. «La moda etica deve superare gli stereotipi e le sfide logistiche per diventare la norma» è il motto del festival Rivestiti di Bologna. E anche l’up-cycling, trasformazione creativa e artigianale delle stoffe, costruisce lavoro puro, senza sprechi. Certo, rispetto ai miliardi di pezzi che formano la montagna di rifiuti tessili, il suo impatto quantitativo è limitato. Se poi il lavoro è svolto in Occidente, il risultato è soprattutto culturale, per via del prezzo.

L’UTILE «GUIDA AL GUARDAROBA ETICO e sostenibile» di Greenpeace Uk spiega come superare la moda usa e getta. Tenere, usare con cura, niente shopping compulsivo a poco prezzo, peschiamo dal nostro guardaroba. E poi modificare, reinventare, riparare. Comprare solo usato o eco-equo-durevole. Barattare, vendere, e donare ai circuiti solidali. Ma se ci si sbarazza per ricomprare, è green washing personale: ormai anche il circuito dell’usato per beneficenza è stracolmo.

INFATTI LA FILIERA DEL RIUSO/RIUTILIZZO, ovvero la seconda vita al prodotto – abito o tessuto o anche calzatura – virtuosa quasi quanto la prevenzione (secondo la gerarchia europea dei rifiuti) viene complicata dalla moda usa e getta. Solo in Italia nel 2022 sono state raccolte in modo differenziato 160.000 tonnellate di abiti: circa 500 milioni di vestiti; in parte riusabili, in parte riciclabili, in parte da smaltire. Dove vanno?

PIETRO LUPPI, RICERCATORE, direttore dell’Osservatorio del riutilizzo e del Comitato scientifico della Rete nazionale operatori dell’usato, autore fra l’altro de La rivincita dell’usato (Edizioni ambiente), lavora sulle interconnessioni globali: «Nello scenario attuale, in larga parte per via della fast fashion, i rifiuti tessili conferiti sono in quantità molto maggiore e di minore qualità; la parte riutilizzabile ormai arriva al massimo al 50%; per le fibre miste, poi, anche il riciclo si presenta arduo. E con i costi di smaltimento schizzati alle stelle in Europa, gli stock che gli operatori europei mandano per il riutilizzo in Africa e per il riciclaggio industriale in India e Pakistan aumentano e peggiorano. Conseguenza: là cresce la quota di smaltimento improprio, una Terra dei fuochi fuori dall’Europa. Tanto che l’Ue sta discutendo su un giro di vite».

NON ESPORTARE PIU’? «Nel sistema economico mondiale, certo iniquo, l’usato fisiologicamente transita da territorio ricco a territorio povero. L’industria europea ha fame di materie prime secondarie e intende investire nel riciclo chimico e meccanico. Ma per il riutilizzo, pilastro dell’economia circolare, le filiere extra- europee sono necessarie. E allora la sfida è: «Come indirizzarle a fin di bene?». Una risposta è portare in Africa e altrove i giusti standard ambientali, magari attraverso programmi di cooperazione orizzontale e con formule come l’Upr (Ultimate producer responsibility) della quale si sta discutendo a livello di ricercatori, attivisti e operatori: il produttore deve assicurare il rispetto degli standard lungo tutto il percorso dell’abito usato. In Africa si stanno creando processi di qualità coinvolgendo i micro-venditori finali e anche i waste pickers delle discariche – i soggetti deboli, quelli che poi fanno lo smaltimento improprio nel concreto perché ricevono abiti di bassa qualità».

MA NON INIBISCE LA PRODUZIONE LOCALE, l’export dell’usato? Per Pietro Luppi, «allo stato attuale, in certi paesi l’unico effetto di togliere l’usato importato sarebbe quello di fare spazio alla fast-fashion cinese a basso prezzo. Occorre gradualità. Gli abiti usati sono come quelle medicine la cui soglia terapeutica è molto vicina alla soglia tossica. Invece di fare gli eurocentrici, meglio affidarsi alle decisioni degli Stati «riceventi»; se loro dicono «non voglio gli abiti usati», li si rispetta. Anche se rischia di essere una soluzione parziale: nei paesi dove è stata vietata l’importazione (per esempio la Nigeria), l’usato entra di contrabbando».