C’è un grande “buco nero”, nella riforma costituzionale del governo, appena approvata in prima lettura: quello della legge elettorale. Si proclama la futura elezione diretta del premier, ma non si dice in che modo questi dovrebbe essere votato.

Molte voci, alcune anche all’interno della maggioranza, hanno sollevato il problema; ma il governo tace e rimanda, ed è palese l’imbarazzo con cui si tratta l’argomento. È bene riassumere i termini della questione: questa riforma, come è stato detto e come occorre non stancarsi di ripetere, annulla i cardini della democrazia parlamentare, in quanto rende il parlamento una mera appendice del leader eletto; toglie ogni autonoma legittimazione alle camere. È il leader che si trascina dietro una maggioranza di parlamentari, fa eleggere deputati e senatori come propri “dipendenti”.

Ebbene, questo modello plebiscitario può funzionare ad una sola condizione: che il sistema elettorale con cui si eleggono deputati e senatori sia assolutamente legato all’elezione del premier. Questo vincolo esclude molti possibili modelli, quali che essi siano, maggioritari o proprorzionali o un qualche ibrido: persino, l’attuale, obbrobrioso Rosatellum, non va bene, perché – come dimostrano le due occasioni in cui lo si è utilizzato – l’esito è del tutto aleatorio e quindi viene meno il principio della maggioranza assicurata al premier.

Vi è un solo modello che si adatta al principio dell’elezione diretta: niente di più e niente di meno che il vecchio Porcellum (la legge Calderoli), che conteneva già in nuce questa deriva plebiscitaria, nel momento in cui prevedeva l’indicazione del «capo della coalizione» e il premio di maggioranza alla coalizione vittoriosa. Perché, allora, la maggioranza sta rimandando questo nodo? E perché, occorre aggiungere, la pattuglia di giornalisti e costituzionalisti «dialoganti» evitano di dire qualcosa sulla faccenda?

Si possono fare solo delle congetture, ossia che sono troppo evidenti i guasti già prodotti da questi sistemi a premio per poter oggi ammettere a cuor leggero che l’elezione diretta del premier può fondarsi solo su un simil-Porcellum. Soprattutto su un punto, da cui emerge tutta l’incongruenza del progetto: questi sistemi contengono un potente incentivo alla frammentazione e conferiscono un potere condizionante anche alle più infime minoranze.
Si può già immaginare uno scenario da incubo: i candidati-premier che si affannano, necessariamente, a costruire una coalizione in cui si possa imbarcare quanta più gente possibile, e poi una maggioranza parlamentare impotente, divisa e frammentata, ma in costante agitazione per rivendicare il dovuto, preda dei peggiori particolarismi. Da un lato il capo e dall’altro lo sfarinamento di ogni autentica rappresentanza politica. E in mezzo il vuoto. Altro che stabilità.

Si capisce l’imbarazzo: vedremo come pensano di uscirne. Quel che è certo che anche l’opposizione al disegno governativo non può più lasciare sullo sfondo il problema della legge elettorale. Si può e si deve spendere l’argomento, che può risultare forte e credibile presso l’opinione pubblica, anche in vista del possibile referendum, secondo cui questa riforma sottrae agli elettori ogni possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Ma non basta. Fino ad oggi, le opposizioni, con accenti diversi, hanno avanzato una controproposta che si ispira, grosso modo, al modello tedesco: bene, ma il discorso rimane monco, se si ferma a questo punto e non entra nel merito della riforma elettorale. E il necessario complemento ad una forma di governo di tipo tedesco è uno solo: un sistema elettorale proporzionale, con una ragionevole soglia di accesso.

Questo passo, a quanto pare, risulta molto faticoso: in particolare nel Pd, evidentemente, non c’è un accordo sulla linea da seguire: e si può solo intuire che le obiezioni vengano dal retaggio, ancora tenace, della cosiddetta cultura del maggioritario.
Sarebbe bene che queste diverse posizioni emergano alla luce del sole. Ma a coloro che sollevano dubbi sul ritorno al proporzionale e sui suoi presunti effetti nefasti, si deve chiedere uno sforzo di coerenza: posto che, come abbiamo detto, il vulnus fondamentale che viene inferto dalla riforma Meloni alla democrazia parlamentare è quello con cui si elimina ogni autonoma legittimazione del parlamento, tutto si può proporre (ad esempio, un ritorno alla legge Mattarella, o una qualche forma di collegio a doppio turno alla francese) purché questo sistema conduca all’elezione di un parlamento autonomo, che poi conferisca la fiducia al governo. Quello non si può fare è continuare nell’equivoco che spaccia per maggioritari i sistemi “a premio”, che sono in effetti sistemi proporzionali con l’effetto distorsivo del premio e potentissimi incentivi alla frammentazione (aldilà delle soglie formali). E, naturalmente, si deve ben essere ben consapevoli che una qualche forma di autentico maggioritario (come mostra l’esperienza francese e anche quella britannica) non garantisce affatto maggioranze precostituite e blindate.

È bene che si apra una discussione aperta su questi punti: non sarebbe il caso, forse, di ridare la parola alla politica, e ad una rappresentanza politica, anziché illudersi che la famosa governabilità possa essere assicurata da maggioranze fittizie e costruite artificiosamente e da leader prebiscitati ma privi di reale consenso ? Quanto accade in Francia, non sta insegnando nulla?