Cari amici del manifesto,

grazie per il sentimento e la partecipazione con cui siete stati accanto a Luciano Del Sette, e a me, in questi giorni così difficili e bui. Grazie per l’amicizia e l’amore con cui l’avete salutato dalle pagine del “suo” giornale, che era la sua vita.

Luciano teneva appeso in studio un foglio dattiloscritto, recuperato dalla storica sede di via Tomacelli.

È un foglio dai bordi bruciacchiati con su scritto: “I redattori/trici e i compagni/e sono pregati di spegnere i loro computer quando vanno via e la luce della stanza, perché Il portiere di notte è anche un bel film, ma non ancora un ruolo attribuito a qualcuno”.

Luciano era uno che le luci non le spegneva, nemmeno quando andava via. Ne lasciava sempre una piccola accesa: “Così, quando torno, c’è qualcuno che mi aspetta”.

Delle tante luci accese col suo lavoro e il suo contagioso entusiasmo per la vita, quella del manifesto e dei suoi lettori è senza dubbio la più calda e amata.

Roberta

Per chi avesse piacere di tenere acceso il suo ricordo, mi permetto di condividere le parole da lui scritte anni fa, con le quali ci ha salutato, sabato scorso.

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“I sogni non sono quelli della notte, oppure le parentesi brevi di una sonnolenza pomeridiana. I sogni sono costruzioni, coscienti e precise, castelli per nulla sospesi nell’aria. I sogni siamo noi. Se ai sogni credi, lotti perché si avverino. Mettendo in conto una buona lista di illusioni e delusioni. Cenerentola che canta “i sogni son desideri” mi è sempre stata sulle palle. […]

Mi ricordo che ero felice, una delle tante volte in cui ero riuscito a rendermi tale. Potrei dirti che stavo sul ponte di Rialto a Venezia, guardando nel buio la gente che passeggiava di sotto e annusando la muffa della città. Oppure che me ne stavo seduto a guardare il sole che divideva con l’ombra il diritto a spalmarsi sul duomo di Orvieto. O, ancora, raccontarti di una notte nel deserto, facendo i conti con la banalità delle parole, sprecate nel descrivere una dimensione impossibile da raccontare. O, semplicemente, nella mia casa, ascoltando musica nuova per capire se mi piaceva o no. […]

Ti ricordi quando una volta mi sono commosso, raccontandoti della mia gratitudine nei confronti della vita, e quindi del tempo che finora lei mi aveva concesso?

Non so bene quando mi sono trovato a pensarlo, il tempo, come se fosse un’entità che cominciava a chiedermi dei bilanci. Non si è presentato nelle vesti di un ragioniere severo, ha lasciato che continuassi a lottare per le mie cose, non mi ha scoraggiato. Però, ne sono certo, mi ha invitato a riflettere.

E mi ha fatto incazzare.

Gli ho detto, più di una sera: ma cosa vuoi da me, io sono ancora io.

E lui mi ha risposto che non lo metteva in dubbio, soltanto che lui, il tempo, si stava accorciando.

E io mi sono incazzato ancora di più: a me cosa importa, io sono ancora io.

E lui (se devo pensare alla sua faccia la immagino che sorride con una certa indulgenza) mi ha detto: certo, ma tu devi fare i tuoi conti con me. Adesso più che mai. E io mi sono detto che aveva ragione lui. Che io non potevo, in nessun modo, obiettare.

Ti lascio quello che ho scritto pensando al mio tempo. È il riassunto di una trama scritta guardando a un’esistenza. La mia, nello specifico. Ma che immagino somigli a quella di tanti altri.

Adesso vado. O torno, forse.

Se questa lettera fosse un racconto e dovessi farlo precedere da una dedica, scriverei ‘ai vinti, che sono i veri vincitori’. I vinti sanno sfidare il tempo”.

(da Riassunto di fine giornata, Luciano Del Sette, Exorma 2012)