Grazie alle vantaggiose tariffe delle compagnie aeree low cost, Stansted è divenuta una meta privilegiata dei tanti italiani che per turismo o lavoro si riversano su Londra. Collocato a una cinquantina di chilometri dal centro della capitale inglese, l’aeroporto è stato ampliato in maniera esponenziale, tanto da diventare, con oltre 25 milioni di passeggeri l’anno, il quarto scalo inglese. Ma l’aerostazione dell’Essex nel recente passato è stata impiegata per finalità molto meno «convenzionali», come dimostra un caso che ha profondamente scosso l’opinione pubblica britannica.

È LA NOTTE del 28 marzo del 2017. In uno dei brevi momenti di apparente pausa sulle piste sempre affollate di Stansted sta per decollare un Boeing 767, con la «insolita» destinazione Africa occidentale. Sul velivolo ci sono 60 persone che viaggeranno contro la loro volontà, perché devono essere deportate nei loro paesi di origine, specificatamente in Nigeria e Ghana. Questa volta il piano così draconiano del governo britannico viene «sabotato».

Venuti a conoscenza dei dettagli dell’operazione, 15 esponenti del gruppo “End Deportation” tagliano la recinzione, si intrufolano sulla pista e con un’azione non violenta, stendendosi sulla pista, evitano che l’aereo si stacchi da terra. «Su quel Boeing c’erano persone che temevano per le loro vite, che erano state strappate alle loro famiglie, alle loro comunità e tre erano state addirittura vittime di tratta di esseri umani», ci raccontano Emma Hughes e Jo Ram, due delle attiviste presenti quella notte, che incontriamo nell’appartamento di Jo a Finsbury Park, nel nord di Londra.

LO SFORZO di End Deportation ebbe successo. Dopo 10 ore di stallo, gli attivisti furono arrestati dalla polizia, ma l’aereo aveva ormai perso il suo slot e non poteva più partire. «Pensavamo di andare subito incontro a una sanzione amministrativa, al massimo ad alcune ore di community service. In passato c’erano state azioni simili da parte di gruppi ambientalisti in altri aeroporti inglesi e le pene erano state sempre lievi, con l’imputazione di sconfinamento illegale, che nella peggiore delle ipotesi prevede tre mesi di reclusione.

Tuttavia nel nostro caso la questione è divenuta interamente politica» ci ragguaglia Emma. Inizialmente le accuse erano quelle che i 15 si aspettavano, ma quattro mesi dopo tutto è cambiato. Le imputazioni si sono basate sul National Maritime Security Act, una legge introdotta dopo l’attentato di Lockerbie del 1988, tesa a punire atti violenti compiuti all’interno di un aeroporto e che prevede come pena massima l’ergastolo. Una norma praticamente mai usata, per il cui impiego c’è stato bisogno dell’autorizzazione da parte del ministro di Grazia e Giustizia, che all’epoca era un parlamentare dei Conservatori. «Così il nostro caso è finito davanti alla Chelmsford Crown Court, che è chiamata a decidere su crimini di maggiore gravità» spiega Jo.

IL PRESIDENTE della corte ha avuto quale prerogativa quella di illustrare alla giuria – composta da 12 membri – come interpretare le disposizioni del dettato normativo. «Dal momento che non c’erano precedenti, il giudice ha avuto un ampio margine nel trattare il tema, ma non ci ha mai spiegato come noi 15 avremmo messo in pericolo la vita di altre persone», si accalora Emma. «Il nostro avvocato ci ha detto che in oltre 20 anni di attività non aveva mai visto un cambio imputazione così radicale».

LO SCORSO dicembre gli “Stansted 15”, come sono stati denominati dalla stampa britannica, sono stati dichiarati colpevoli, ma per fortuna ieri, mercoledì 6, la sentenza definitiva ha previsto una condanna meno severa: 12 dovranno svolgere del community service e altri 3 hanno ricevuto la sospensione della pena. Su tutta la vicenda continua ad aleggiare però l’immagine del «corto circuito giudiziario», con il paradosso che nel 2017, quando il ministro dell’Interno era l’attuale premier Theresa May, il sistema inglese permetteva di cacciare persone dal suolo britannico senza che la loro istanza d’asilo fosse stata interamente trattata dalle autorità competenti. Dettaglio tutt’altro che irrilevante, nel 50% dei casi l’appello ribaltava la decisione negativa del primo grado.

Quindi il mancato completamento dell’iter legale era una vera e propria ingiustizia, peraltro in violazione delle norme di diritto internazionale. «Chi è stato deportato sono quasi sempre persone che hanno vissuto in Inghilterra per molti anni e che, dopo controlli d’ordinanza con il ministero degli Interni, dall’oggi al domani vengono condotte in un centro di detenzione per poi essere caricate su un aereo e riportate nel loro paese di origine senza poter far nulla in merito. Undici delle 60 presenti sul volo che abbiamo bloccato sono ancora in Inghilterra e due di loro hanno poi vinto l’appello e ora risiedono legalmente nel Regno Unito» ci tengono davvero a puntualizzare Emma e Jo.

IN TEORIA anche la mancata decisione sul secondo grado di giudizio non è più permessa, in base a quanto stabilito da una sentenza della Corte Suprema britannica, uno dei risultati tangibili della pressione di gruppi come “End Deportation”. «Però noi crediamo che queste pratiche siano ancora in atto, perché il governo è molto poco trasparente in proposito. I dati sui deportation flight non sono pubblici e anche tramite il Freedom of Information Act o l’aiuto di parlamentari “amici” è molto difficile avere informazioni precise» sostiene Jo Ram.

IL DRAMMA delle deportazioni nasce da lontano. «È stato il governo Blair, nel 2001, a iniziare questa pratica così inumana. Da allora è partito un aereo al mese, alcuni verso l’Africa occidentale, come quello che abbiamo bloccato noi, altri verso la Giamaica, fermati dopo lo scandalo Windrush (scoppiato nel 2018, quando si è scoperto che centinaia di migranti di origini caraibiche erano stati detenuti illegalmente e almeno 63 ingiustamente scacciati dal Regno Unito, ndr).

Ma presto anche questi voli riprenderanno» racconta Emma. «Adesso non sono più impiegati aeroporti civili, ma quello militare di Brize Norton, così da limitare azioni come la nostra. Le deportazioni sono la misura estrema di un clima di intimidazione che, tra l’altro, cerca di impedire ai migranti di acccedere alle prestazioni fornite dal Servizio Sanitario Nazionale o più banalmente di attivare un conto corrente». E il clima post referendum sulla Brexit non ha certo aiutato a migliorare la situazione.

Secondo Emma «è inutile negarlo, la vittoria del leave è stata possibile anche grazie a una forte retorica anti-migranti. Forse nella nostra società c’era più razzismo negli anni Settanta e Ottanta – (teatro di numerosi riots a sfondo razziale, ndr) – ma adesso è stato sdoganato, anche a causa delle posizioni estremiste di alcuni media. Certo, le politiche dell’Ue sui migranti non sono molto condivisibili, ma con la Brexit il Regno Unito darà un’ulteriore stretta alle frontiere. Va detto che lo scandalo Windrush ha aiutato tanti ad aprire gli occhi sugli abusi e le violazioni commesse dal nostro governo e non è da escludere che nel lungo periodo anche un esecutivo guidato dai Tory possa essere costretto a cambiare qualcosa nell’attuale sistema».

LA STRADA da percorrere è però ancora lunga. Seppure a Downing Street dovesse insediarsi il leader dei laburisti Jeremy Corbyn non ci sarebbe un totale ribaltamento della situazione attuale. «Corbyn è sicuramente contro le deportazioni, ma non sarà facile nemmeno per lui mutare profondamente la politica del Regno Unito sui migranti. Per questo – chiosa Emma – c’è bisogno di una continua pressione da parte della società civile». Jo ed Emma sperano che il loro esempio sia in futuro seguito da tanti, ma ammettono che quanto vissuto in questi due anni le ha provate moltissimo. Ieri davanti al tribunale di Chelmsford si sono presentati in centinaia per sostenere gli Stansted 15. Un segnale forte, che lascia ben sperare per il proseguo della campagna contro le deportazioni.