Dopo il colpo di mano con cui martedì ha sopraffatto le forze separatiste armene, l’Azerbaigian vuole chiudere in fretta la partita. I militari di Baku procedono nella «bonifica» del territorio prendendo controllo dei punti fortificati su cui per 35 anni hanno sventolato le bandiere dell’Artsakh (gli stessi colori di quelle armene ma con un elemento decorativo aggiuntivo).

Solo nell’ex-Stepanekert, la capitale che presto porterà solo il nome azero di Khankendi, rimangono zone fuori controllo azero, dove si ammassa la popolazione armena in fuga dai villaggi. I profughi cercano anche rifugio nelle caserme della forza d’interposizione russa che hanno dichiarato ieri di aver assistito 826 civili, inclusi 440 bambini.

Human Rights Watch ha denunciato ieri la «terribile crisi umanitaria e la grave incertezza sul loro futuro» a cui fanno fronte migliaia di civili del Nagorno-Karabakh. Baku invia aiuti e dichiara che i diritti verranno rispettati, garanzie a cui pochi credono provenendo da un regime dove ogni dissenso è stato finora duramente represso.

NONOSTANTE la responsabilità per l’uccisione fortuita del vice-comandante, la Difesa azera si dice soddisfatta della «cooperazione delle forze russe nel disarmare i banditi armeni». Ieri alcune agenzie russe hanno riportato un ulteriore attacco azero ad un deposito di munizioni russo, notizia rivelatasi poi errata essendo il bersaglio armeno. Nondimeno, la scena politica russa è divisa sull’acquiescenza di Putin nei confronti di Baku. Per ora prevale il sostegno per le posizioni azere di fronte al «tradimento» dell’Armenia che aveva cercato la protezione dell’Occidente. L’invasione viene considerata uno schiaffo alle politiche di Washington e Bruxelles ed una lezione per quanti nel girone russo pensassero di cambiare campo.

Si assiste ad un certo cortocircuito nelle linee degli attori geopolitici attivi da decenni nella partita del Karabakh, tramite cui hanno cercato di manipolare gli equilibri del crocevia strategico del Caucaso. Ciò è stato visibile giovedì, durante un «briefing sulla situazione nella regione» convocato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Qui i russi hanno affermato il proprio «ruolo di primo piano nel promuovere la normalizzazione tra Armenia e Azerbaigian». Anglo-americani ed europei si sono limitati ad esprimere solidarietà agli armeni e generiche condanne per l’uso della forza.

SEMPRE PARALIZZATO il governo di Erevan dove continuano manifestazioni di piazza, ieri fermamente represse dalla polizia, contro il premier Pashinjan. L’Armenia chiede il dispiegamento di una missione Onu (riconoscendo così l’incapacità dell’Ue, che ha già inviato osservatori sul campo all’inizio dell’anno) pur dichiarando di «non vedere minacce imminenti» per la popolazione armena karabakhi. Un messaggio contrastante è giunto dal presidente Khachaturyan il quale ha parlato di una possibile ripresa dell’offensiva azera. Karabakh a parte, gli armeni temono che il prossimo obbiettivo di Baku sia il corridoio di Sjunik, la striscia di territorio che separa l’Azerbaigian della Turchia, ciò che però trascinerebbe l’Iran dentro un nuovo conflitto regionale.