Seduto nel suo ufficio, il capitano cubano Pedro Leyva muove un pedone sulla scacchiera elettronica, illuminata dalla luce che filtra dall’oblò. Attorno a lui, nei corridoi, sulle scale di metallo e fin giù nelle cantine, il silenzio si annida nella ruggine, simbolo di una vecchia diserzione. Ancorata fra due piroscafi nel porto commerciale di Las Palmas, isole Canarie, la petroliera Iballa giace in abbandono da tre anni e mezzo. Incapace di onorare i propri debiti e di pagare l’equipaggio, l’armatore è sparito. E i marinai, senza salario, sono andati via. Salvo uno. Leyva, 68 anni, privo di mezzi, ultimo occupante di una nave cisterna di seicento metri, passa le giornate all’ombra, tra la ferraglia, aspettando la sentenza del processo, nel 2015.

Tre pensionati renitenti gestiscono con mezzi modesti la Stella Maris di Las Palmas, un’associazione cattolica di soccorso alla gente del mare, da un locale che non hanno nemmeno potuto dotare di un collegamento internet. Nel porto, questi volontari sono l’ultimo baluardo fra i marinai alla rada e la miseria che li aspetta al varco. Non appena il furgoncino di Juan Antonio Rodríguez si ferma davanti al peschereccio Alba, tre membri dell’equipaggio scendono sul molo a prendere le cassette di cibo. Abbandonati da un armatore truffatore due anni fa, i marinai sono originari dell’Africa dell’Ovest. Fra gli occupanti della nave, alcuni non facevano parte dell’equipaggio: migranti privi di documenti o in situazione precaria, arrivano dalla città e si sistemano in uno dei circa quaranta relitti del porto, approfittando di un alloggio gratuito e degli aiuti di Stella Maris.

Un po’ più lontano, ecco i marinai del peschereccio Valiente. Partiti da Mourmansk, città portuale nell’estremo nord-ovest della Russia, hanno gettato l’ancora dopo sette mesi di navigazione. L’armatore, chiuso nella sua cabina, si rifiuta di pagare i loro salari, per un totale di 300.000 euro. «E’ la fase in cui le persone hanno paura», spiega il signor Rodríguez, con un dossier sotto il braccio. «Vogliono solo ottenere quanto gli spetta e andarsene. Come Ong (organizzazione non governativa) possiamo rappresentarli giuridicamente, pagare un avvocato, e abbiamo il potere di bloccare la nave se l’armatore rifiuta di pagare. Per il momento, gli proponiamo un negoziato. O accetta di pagare almeno l’80% dei salari e la cosa si sistema immediatamente, oppure avviamo un processo e la nave non parte più».

Il capitano, che comanda la nave sotto bandiera brasiliana, si è messo dalla parte dell’armatore. «Poi si dividono i benefici», afferma Maximo, l’interprete mandato dall’associazione, nativo di Odessa e sbarcato al porto di Las Palmas in circostanze analoghe nel 1999. «Se ne fregano dell’equipaggio. Sono dei mafiosi di Mourmansk. Là c’è la miseria, non c’è lavoro. E’ facile imbarcare personale. Li fanno lavorare in mare per molti mesi, non li pagano e se ne vanno. Dopodiché cambiano il nome della compagnia e ricominciano». Molti membri dell’equipaggio hanno rifiutato di associarsi al ricorso legale. L’anno scorso, sullo stesso molo, l’armatore di un peschereccio russo ha minacciato i marinai di rappresaglie sulle famiglie, se avessero fatto storie.

Vulnerabili, data la loro attività nomade, i lavoratori del mare si avvalgono del sostegno di un’organizzazione sindacale: l’International Transport Workers’ Federation (Itf), fondata dai dockers di Londra alla fine del XIX secolo, mette a disposizione dei fondi per rispondere alle situazioni di emergenza. Nel 2011 ha permesso a diversi marinai ucraini abbandonati nei Paesi Baschi di tornare a casa senza dover aspettare. Ma l’Itf esita ad agire quando il valore della nave è inferiore al debito salariale contratto dall’armatore, e anche quando le delegazioni regionali, come alle Canarie, sono dirette da un lavoratore di terraferma, meno disposto a sporcarsi le mani per i compagni del mare. Le autorità portuali, poi, di fatto equiparano i marinai in secca a migranti clandestini, uno status che rende più difficile la loro presa in carico, quantomeno amministrativa. Una volta accertatosi dell’intervento delle Ong, il porto spagnolo declina qualunque responsabilità: secondo la Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare (Cnudm), se l’armatore non risponde più, la sorte degli equipaggi dipende dall’amministrazione del paese di immatricolazione della nave. Ma come ottenere dalle autorità del Belize o delle isole Cayman che rimpatrino marinai in Russia?

Su un telone bianco tirato sul peschereccio lì accanto, l’Obva, c’è scritto: «Siamo trattenuti dal porto come ostaggi». La nave contiene trecento tonnellate di pesce: le autorità sanitarie da mesi impediscono al capitano di scaricarlo. Ci sono dubbi sul carico e sulle condizioni di pesca, che devono adempiere alla normativa europea. La decisione finale dovrà essere presa dal ministero spagnolo dell’agricoltura, alimentazione e ambiente. E, in ultimo, Bruxelles dovrà dare l’assenso. Un’eternità: i frigoriferi del peschereccio non possono reggere fino ad allora. Il pesce si perderà, e con quello se ne andranno le paghe dei marinai, legate ai ricavi della vendita. L’equipaggio è prigioniero della clessidra delle procedure. «Da dieci anni la legislazione internazionale diventa sempre più stringente, commenta Eric Banel, amministratore degli affari marittimi (1) e delegato generale degli armatori francesi.

Gli Stati europei hanno aumentato i controlli, diventati estremamente severi riguardo alle condizioni di sicurezza e al rispetto delle convenzioni sociali minime. Ci si ritrova con un numero sempre maggiore di imbarcazioni bloccate perché non superano i controlli». Alcuni armatori preferiscono abbandonare equipaggio e imbarcazioni quando la cosa appare loro più conveniente. Come a Las Palmas, marinai abbandonati si annoiano a Marsiglia, Le Havre, Anversa, Liverpool, Rotterdam e Amburgo.

L’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) ha elaborato nel 2006 la Convenzione sul lavoro marittimo, che garantisce alla gente di mare il pagamento del salario e facilita il rimpatrio in caso di dispute: gli Stati che ricevono gli equipaggi dovranno anticipare le spese, che saranno poi rimborsate dallo Stato della bandiera. Il testo, di universale applicazione, entra in vigore nell’estate 2013.

(1) Gli amministratori degli affari marittimi (Aam) fanno parte di un corpo di funzionari della marina nazionale presso il ministero del Mare.

(Traduzione di M. C.)  © Le Monde diplomatique/il manifesto