La guerra siriana, data per conclusa troppe volte, mantiene due fronti aperti. Quello di Idlib, nel nord ovest del paese, e quello del Rojava, a nord est. In entrambi i casi di mezzo c’è la Turchia e lo scontro più o meno diretto tra il governo siriano e le milizie alleate di Ankara.

Ieri nella provincia di Idlib – tramutata in un immenso hub jihadista dai vari accordi di evacuazione siglati in questi anni tra Damasco e i gruppi qaedisti – sono proseguiti violentissimi gli scontri tra esercito governativo e la galassia islamista capitanata dall’ex Fronte al-Nusra.

Secondo le opposizioni, l’aviazione del presidente Assad ha colpito due mercato, uccidendo dieci civili nelle città di Maaret al-Numan e Saraqeb. Foto e video mostrano le macerie e i tentativi di tirare fuori i sopravvissuti. Dopo mesi di cessate il fuoco, iniziato alla fine di agosto, la battaglia è ripresa sabato quando i qaedisti hanno lanciato un’offensiva contro l’aeroporto di Abu Dhuhour. In 48 ore sono morti 51 governativi e 45 miliziani.

Continua così a lievitare il numero di sfollati dal nord ovest, ormai centinaia di migliaia. Si aggiungono agli sfollati dall’operazione turca «Fonte di pace», cominciata il 9 ottobre scorso e mai conclusa nonostante gli annunci di tregua prima statunitensi e poi russi.

A dare forma alla violenza è la banca dati realizzata dal Rojava Information Center, in continuo aggiornamento: contiene 151 violazioni commesse dall’esercito turco e dalle milizie islamiste alleate di Ankara contro la popolazione del nord est siriano. Tutti documentati, con video o foto.

Ci sono i saccheggi compiuti dai miliziani islamisti contro case, negozi, chiese, moschee, abbandonati dalle comunità in fuga. Ci sono rapimenti, uccisioni, torture sui prigionieri. E ci sono i bombardamenti e i colpi di artiglieria contro i silos di grano, gli impianti idrici, le cliniche e gli ospedali, le ambulanze e i giornalisti a Sere Kaniye, Ayn Issa, Tal Abyad.

L’ultima violenza è di ieri: otto bambini, una donna e un uomo uccisi a Tel Rifaat da un raid turco, quasi tutti sfollati dal cantone di Afrin, occupato nell’aprile 2018 dalla Turchia. Dodici i feriti. L’attacco ha colpito l’esterno di una scuola, mentre gli studenti uscivano per tornare a casa.
Lo scriveva pochi giorni fa in un comunicato anche Human Rights Watch: la «zona sicura» creata dal governo turco con il beneplacito di Mosca – che ha regalato al presidente Erdogan l’occupazione di un corridoio di terre

lungo oltre cento chilometri nel Rojava – è lungi dall’essere «sicura».

Le milizie filo-turche stanno commettendo, spiega Sarah Leah Whitson di Hwr, crimini di guerra contro i civili, «abusi e atti discriminatori su base etnica»: «Esecuzioni, saccheggi, sfollati a cui è impedito di tornare a casa sono la prova schiacciante del perché la “zona sicura” turca non è sicura».

E l’operazione prosegue. Domenica l’esercito turco ha iniziato la costruzione di nuovi checkpoint nel nord est siriano, ufficialmente per impedire attacchi terroristici da parte delle unità di difesa curde Ypg.

Servono, in realtà, a radicare la presenza militare della Turchia nella regione, a dividere le comunità e a frammentare – soffocandone la natura – il progetto di confederalismo democratico messo in piedi dai cantoni curdi e dall’Amministrazione autonoma del Rojava dal 2011 a oggi.

Le Forze democratiche siriane (Sdf), federazione multietnica e multiconfessionale guidata dai curdi, provano a salvare quel progetto giungendo a patti con i nuovi padrini turchi: un accordo con la Russia, annunciato su Twitter dal comandante delle Sdf Mazloum Kobani, prevede il dispiegamento di forze militari russe ad Amuda, Tel Temer e Ayn Issa, mentre le Forze democratiche siriane rientrano ad Hasakeh, Qamishlo, Derik e Deir al-Zor.