Ha proprio ragione John Landis a dire che l’esperienza di un film in sala col pubblico è diversa, anzi è speciale – il suo The Blues Brothers chiuderà il Cinema ritrovato con la proiezione in Piazza Maggiore domenica. Non è semplice retorica né questione di nostalgia (vintage) o di sala vs. piattaforma, e il festival bolognese ne è la prova.

Prendiamo un film come Femmine folli (Foolish Wives) di Erich von Stroheim, un classico del 1922 – è infatti nella sezione Cento anni fa: 1922 – che all’epoca venne pubblicizzato come «il primo film da un milione di dollari» (ma il budget era in costante aggiornamento, la produzione era targata Universal) mentre le leggende si moltiplicavano intorno al set, narrando delle eccentricità del regista: vederlo sul grande schermo di Piazza Maggiore con l’accompagnamento (ottimo) dell’Orchestra del Comunale di Bologna è come se fosse la prima volta – e non solo per il restauro (la versione è prodotta dal Moma e dal Silent Film Festival di San Francisco) che restituiscil finale. È che tra il pubblico scorrevano tensione, meraviglia che davano alle immagini una grana diversa.

Ecco dunque la scommessa del festival, e il suo successo cresciuto negli anni grazie a una struttura legata al territorio ma con un respiro internazionale come la Cineteca di Bologna con la direzione di Gian Luca Farinelli – anche alla guida del festival insieme a Cecilia Cenciarelli, Ehsan Koshbakht, Mariann Lewinsky. Che in Italia per spazi, attività, proposte, relazioni internazionali lavoro tutto l’anno è una realtà unica – pensiamo a Roma, una capitale dove non si è mai riusciti a realizzare un luogo integrato tra Cineteca-sale-biblioteca, laboratori ecc ecc..

Una scena da «Man in the Attic» di Hugo Fregonese

STUDIOSI, archivisti, responsabili di cineteche, distributori, docenti, studenti o spettatori appassionati si danno appuntamento dunque in questi giorni e condividono le visioni sempre molto partecipate. Il passaparola tra i più giovani spinge verso il programma Peter Weiss, l’autore del Marat/Sade adattato poi da Peter Brook di cui si scoprono i film. Tedesco, fuggito in Svezia con la famiglia per evitare le persecuzioni naziste, figura di riferimento per il cinema sperimentale svedese con l’Arbetsgruppen for film Weiss esordisce negli anni Cinquanta con una serie di corti come Volti nell’ombra (1956) – in cui racconta i marginali di Stoccolma.

La scommessa del festival, e il suo successo cresciuto negli anni grazie a una struttura legata al territorio ma con un respiro internazionale

Secondo la legge (1958) è girato in un carcere minorile – venne censurato – e mostra il quotidiano dei giovani detenuti attraverso dei gesti, pensieri (il suicidio, la fuga …) senza farne vedere il volto. Il lavoro è sui dettagli, i frammenti di corpi, gli spazi, E in quella geografia socialeche percorre il suo unico lungometraggio Miraggio (1959), ventiquattro ore a Stoccolma tra la gentrificazione del centro e le contraddizioni del tempo.

Altra scoperta imperdibile, divenuta dal primo giorno una tappa «obbligata» sono i film di Hugo Fregonese, «il vagabondo» come dice il titolo della sezione a lui dedicata ( a cura di Dave Kehr e Ehsan Khoshbakht). Argentino, famiglia di immigrati trevigiani, passa dal suo paese di nascita all’America, la Spagna, l’Italia, la Germania confrontandosi col thriller e con il western, col basso costo e coi sentimenti di violenza, con eroi in bilico imprigionati nelle loro ossessioni.

Man in the Attic (1953) ne è una splendida dimostrazione a cominciare dallo spunto di partenza, il romanzo di Marie Belloc Lowndes – che aveva già ispirato Hitchcock – The Lodger, con cui il regista si confronta di nuovo con la storia di Jack Lo Squartatore. Il protagonista, l’enigmatico Slade (Jack Palance) che piomba a casa di una coppia «normale» – il marito sempre di cattivo umore, la moglie chiacchierona da lui considerata un po’ sciocca, la cameriera confusa – costretta a affittare le stanze della casa da una crisi economica appare subito sospetto. Sarà perché Londra è sconvolta dagli omicidi seriali di ragazze e dall’impotenza della polizia, o perché il tizio patologo stimato (lo si scoprirà in seguito) ha degli atteggiamenti un po’ strani, predilige la soffitta alla comodità e detesta i ritratti delle attrici appesi alle pareti, omaggio forse alla nipote della coppia che si scoprirà è la nuova vedette del teatro vaudeville londinese.

L’UOMO è solitario e sofferente – e questo intriga la giovane nipote – e ha problemi con la madre (morta): un Edipo importante (altra traccia letteraria del serial killer, pensiamo alle suggestioni di scrittori contemporanei come Ellroy).

Ma non è tanto la scoperta del colpevole – peraltro il finale lascia aperte molte possibilità– quanto come la regia di Fregonese costruisce la suspense (potentissima) affidandosi alla geometria delle inquadrature, interni e esterni soffocanti e senza punti di fuga c he tradisce i riferimenti, in cui come dice Slade all’ispettore di polizia convinto della linearità di ogni azione «non ci sono criminali ma persone che fanno ciò che devono fare perché sono ciò che sono». Un capovolgimento delle prospettive più rassicuranti e riconoscibili che Fregonese rende trasgressivamente poetica.