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Hillary Clinton sulla Libia: «È stato giusto l’intervento americano»

Hillary Clinton sulla Libia: «È stato giusto l’intervento americano»

Stati uniti La candidata alla presidenza non sconfessa la sua attività, e quella della Cia, a Bengasi

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 23 ottobre 2015

Hillary Clinton ha passato la giornata di ieri sotto i riflettori della commissione parlamentare che indaga sull’attacco dell’ 11 settembre 2012 alla base diplomatica americana di Bengasi. La vicenda che costò la vita all’ambasciatore Usa Christopher Stevens, al suo assistente Sean Smith e a due contractor impiegati dalla Cia, Tyrone Woods e Glen Doherty, è stata già oggetto di sette inchieste.

È perfino la terza volta che l’ex segretario di stato viene indagata a riguardo, ma è la prima volta da quando è candidata per la Casa bianca. Per Clinton l’udienza davanti ad un plotone di parlamentari ostili ha offerto l’opportunità di mostrarsi in atteggiamento pacato e composto e rispondere imperturbabile anche agli attacchi più diretti degli inquirenti; in altre parole, di apparire «presidenziale» in diretta Tv, ancora più di quanto fatto nel recente dibattito di candidati democratici. Il presidente della commissione, il repubblicano Trey Gowdy ha ricordato ieri i punti chiave della tesi «di accusa» secondo la quale un segretario di stato incompetente avrebbe inviato un diplomatico in una regione ad alto rischio senza adeguate precauzioni, ignorato le sue ripetute richieste di rafforzare la sicurezza e, consumata la tragedia, addossato la responsabilità dell’accaduto a subordinati e pubblicamente attribuito i fatti ad una rivolta imprevedibile scatenata dal video satira su Maometto che in quei giorni aveva provocato sommosse popolari in varie capitali nord africane.

Secondo i repubblicani la Clinton d’accordo con Obama avrebbe pubblicamente sostenuto questa tesi poiché la «verità» di un attacco terrorista avrebbe vanificato la narrazione della dottrina Clinton-Obama sulla Libia come success story di democrazia esportata in un momento alquanto inopportuno: due mesi prima delle elezioni presidenziali del 2012. Gowdy che ieri ha esordito con l’inevitabile omaggio agli «eroi americani» che a Bengasi hanno dato la vita ha affermato in apertura di udienza che il loro sacrificio esige giustizia e una verità che la Clinton e i democratici sono tuttora reticenti nel rivelare, sottolineando come un importante risultato dell’attuale inchiesta sia stata la scoperta delle famose email più o meno riservate custodite sul computer di casa della Clinton.

La deposizione di ieri ha avuto uno svolgimento prevedibile, con le solite interrogazioni dei repubblicani ammantati di sacra quanto insincera, indignazione a cui Hillary Clinton ha ribattuto secondo il copione apparentemente ben ripassato dallo staff della sua campagna. Ma se sugli scanni repubblicani abbondava l’ipocrisia, in definitiva era forse sulla coscienza di Hillary che pesava la colpa più grave, quella dell’intervento libico per cui i repubblicani con disinvolta malafede ora la criticano.

E molta della sua difesa verteva sull’affermazione dell’interventismo americano. Quello «a fianco e su richiesta degli alleati arabi ed europei» contro il «sanguinario dittatore Gheddafi» in una Libia poi presto abbandonata a se stessa. E in generale alla politica di ingerenza e «nation building», specificamente nello scacchiere medio orientale a difesa dei soliti interessi nazionali.

La sua difesa è stata la difesa della politica di «presenza diplomatica» americana di cui «il mio amico» Stevens, l’ambasciatore ucciso, era fervente fautore. Stevens era stato a Bengasi dal marzo al novembre del 2011 come inviato presso le forze ribelli allora impegnate nella rivolta contro Gheddafi, prima di venire nominato di li a qualche mese, ambasciatore a Tripoli dalla Clinton.

Le sue iniziative erano «diplomazia di ventura, come quella del diciannovesimo secolo» ha affermato a più riprese ieri Hillary. Il suo ritorno a Bengasi era una missione di avanscoperta per sondare e stabilire rapporti con «forze moderate» e favorire il «ruolo cruciale Usa nelle prime elezioni democratiche di quel paese». Un esercizio di «nation building» gestito da un avamposto della Cia, insomma, che malgrado gli esiti disastrosi – per le vittime di quel giorno e per l’intera Libia – Hillary Clinton non ha accennato a sconfessare.

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