In questo periodo elettorale in cui dibattiti e primarie si susseguono, i bar sintonizzano le proprie tv su questi eventi, preferendoli a una partita di baseball o di basket. Blarney è un piccolo pub irlandese che si trova a downtown Manhattan, proprio nella punta dell’isola, autentico ma come ce ne sono molti a New York; la particolarità di questo pub sono gli avventori.

Vista la prossimità con Zuccotti park, dove si trovava Occupy Wall Street, era diventato il pub di riferimento degli occupiers dove schiarirsi le idee, discutere, fuori dall’occhio del ciclone ed è tutt’ora luogo di ritrovo di liberi pensatori e di una parte di antagonismo newyorchese.

«Se devo bere una birra e chiacchierare con un amico vengo qui – dice Josh, 26 anni – ai tempi dell’occupazione era il pub più vicino senza essere così vicino da incontrarci la polizia che ti aveva appena sgomberato». Passare da Blarney vuol dire sentir parlare di cosa sta accadendo, e ciò che è appena accaduto sono le primarie in Nevada e South Carolina.

«Onestamente? Io sono contro questo appoggio che Occupy Wall Street sta dando a Sanders – continua Josh – Non dipende da Sanders, è una posizione che prenderei con qualsiasi candidato. Semplicemente non credo che la politica rappresentativa possa essere rivoluzionaria. Non credo nei partiti, non credo nel voto, non credo nel cosiddetto sistema democratico».

La ragazza che è con Josh la pensa esattamente come lui: «Non vedo perché dovrei, votando, legittimare un sistema in cui non credo. Il modello bipolaristico americano, poi, è ridicolo. È sbagliato in sé, puoi eleggere il più ben intenzionato dei candidati, quel sistema gli impedirà di portare a compimento un programma rivoluzionario, come dice Sanders».

Nel pub durante i discorsi dei due candidati democratici, trasmessi da Abc in diretta dal Nevada, si alzano spesso fischi o applausi come quando Sanders parla di demilitarizzazione della polizia, tasse a Wall Street, rivoluzione politica o quando, anche se con toni pacati, attacca Clinton. «Lei è una moderata ma non una progressista. Ha votato per la guerra in Iraq – dice Sanders – ha raccolto fondi tramite super Pac, ha votato a favore di Ttp e Nafta (accordi di libero scambio). Non c’è niente di male nell’esser moderati e lei lo è».

«Alla fine credo che andrò a votare e voterò per lui – spiega Olivia, programmatrice 28 enne – il movimento da solo non può rovesciare il tavolo, il sistema però può cambiare. Avere un presidente repubblicano o democratico non è uguale. Il presidente resta un nemico, ma preferisco scegliere il mio nemico».

«Non ho mai votato a destra tranne quando ho votato per Bill Clinton – scherza Nikos, cinquantenne del New Jersey – sicuramente non voterò per sua moglie anche se sta migliorando in strategia comunicativa. È meno rigida, più diretta, ma questo non è un casting per un telefilm».

«Questi distinguo sul sistema non sono cosa per noi – dice Morgan, 30 anni, e con noi intende gli afroamericani – Per noi non è uguale avere come sindaco Bloomberg o De Blasio, non è uguale avere Obama o Trump. Da una parte c’è la volontà di normalizzare con la polizia, dall’altra di militarizzare ulteriormente una polizia che già si comporta da esercito e per la quale noi siamo il nemico. Voterò ma non so se voterò per Sanders: mi piace tantissimo ma non so quanto abbia capito dell’urgenza dei nostri problemi».

In Nevada Sanders ha perso e nella frase di Morgan c’è molto del perché: Sanders piace alla comunità afroamericana, che con quella dei latinos fa la differenza di questa tornata elettorale, ma è percepito come troppo idealista, scollegato dai loro problemi quotidiani; la rivoluzione politica è roba da bianchi senza problemi immediati, il pragmatismo anche cinico di Hillary è invece una sicurezza, sarà disposta a tutto pur di portare a termine il compito che si è prefissata. Bisognerà vedere quanto riuscirà a comunicare Sanders in termini di realismo politico fino al primo marzo, il Super Tuesday, dove si gioca gran parte della campagna elettorale.