Helin Bolek e Mustafa Kocac, due prigionieri politici e un’unica lotta, sono i volti di quanto avviene nelle carceri turche, prima e dopo l’emergenza coronavirus.

Due storie che da sole svelano l’utilizzo che della crisi il governo dell’Akp sta compiendo per quella che può essere definita una punizione di massa.

Helin è morta lo scorso venerdì di sciopero della fame, Mustafa è vivo ma rimane confinato in una cella di Smirne tentando inutilmente di denunciare i cinque giorni di torture a cui è stato sottoposto nell’ospedale della prigione.

Entrambi chiedevano lo stesso, la fine delle misure di repressione con cui Ankara ha provato a rendere invisibili il loro gruppo musicale marxista, Grup Yorum, nato nel 1985 e con 23 album alle spalle.

Dal 2016 gli è vietato esibirsi in pubblico, i suoi musicisti sono stati più volte aggrediti, sette di loro sono tuttora detenuti, il loro centro culturale a Istanbul perquisito con violenza dieci volte negli ultimi due anni.

Per questo, insieme a un altro membro del gruppo, Ibrahim Gokcek, hanno lanciato uno sciopero della fame. Ridotta a uno scheletro dopo 288 giorni, Helin è morta. Mustafa non mangia da 254, pesa 33 chili. È in queste condizioni che è stato torturato, brutalmente.

Di loro si è a lungo parlato nell’evento su Zoom organizzato ieri da Giuristi democratici, Camere penali e Antigone e moderato da Barbara Spinelli a cui hanno preso parte avvocati turchi.

Tra loro Didem Baydar Unsal di Haikin Hukuk Burosu (Studio legale del Popolo) e avvocata di Helin Bolek: «In Turchia – denuncia – le misure prese non raggiungono lo scopo, sono insufficienti: i detenuti in carceri sovraffollate non vengono considerate persone a rischio. Sono in corso scioperi della fame “fino alla morte” per difendere i diritti fondamentali, Helin Bolek ha perso la vita per la sua lotta. Siamo arrabbiati: le rivendicazioni dei nostri assistiti erano legittime e di facile applicazione ma non sono state ascoltate. Le persone attualmente in sciopero della fame hanno sistemi immunitari indeboliti e quindi sono più a rischio di essere contagiate dal virus».

«Le guardie carcerarie fanno avanti e indietro e non è possibile sapere se i materiali che entrano in carcere siano sterilizzati né se le persone che distribuiscono il cibo siano malati o meno – continua – Ai detenuti non vengono date mascherine, guanti o disinfettante. Il caso di Mustafa è illuminante: ha denunciato le torture ma non possiamo incontrarlo».

A scioperare sono anche gli avvocati, Aytac Unsal e Abru Timtik, vittime come i loro assistiti. Dal luglio 2016 al febbraio 2020, scrive in un rapporto il Consiglio nazionale forense, in Turchia sono stati arrestati 605 avvocati, 345 le condanne per un totale di 2.145 anni di prigione.

«Nelle carceri l’unica iniziativa è stata proibire alle famiglie di incontrare i detenuti – spiega Ayse Acinikli, dell’Associazione degli Avvocati per la Libertà (Ohd) – Gli avvocati possono parlarci solo divisi da un vetro e con un telefono. Arrivano notizie di persone con la febbre alta e a Mardin una persona è risultata positiva. Il governo fa molta propaganda sull’indulto ma ha separato i detenuti in due gruppi: oppositori ed esseri umani. Gli sconti di pena non riguardano i detenuti politici, nemmeno quelli malati. Parliamo di circa 30mila persone, sebbene non ci siano dati precisi. Prima, al detenuto politico veniva riconosciuto uno sconto di un quarto della pena in automatico, in assenza di violazioni; ora con i nuovi provvedimenti sarà una commissione interna al carcere a decidere caso per caso».

«A Imrali per Ocalan non è cambiato nulla – interviene Ibrahim Bilnez, legale del leader del Pkk – Ma l’isolamento non è una protezione dal Covid visto che i dipendenti del carcere si spostano. Questa epidemia avrebbe potuto rappresentare un’occasione verso la pace, un’altra occasione persa».