L’Iran fa paura ai paesi arabi sunniti e a Israele perché è grande cinque e volte e mezzo l’Italia e i suoi oltre 80 milioni di abitanti hanno ottimi livelli di istruzione, donne incluse. Ricco di petrolio e gas, ma anche di altre risorse minerarie, ha una storia millenaria ed è un mosaico linguistico, etnico e religioso: rappresenta un esempio di convivenza tra gente diversa. A paesi come l’Arabia saudita, le cui autorità utilizzano le ruspe per devastare i cimiteri della minoranza sciita, che non ha il diritto di pregare e celebrare i propri riti, l’Iran fa paura. E fa paura anche alla destra israeliana, che reclama Israele solo per gli ebrei.

L’Iran è un esempio di convivenza fin dall’antichità. Ciro il Grande permise agli ebrei di tornare a Gerusalemme e ricostruire il Tempio, dando loro i soldi per farlo. Il Cilindro di Ciro è il primo tentativo di amministrare una società, uno stato, con persone di nazionalità e fedi diverse. È un inno alla libertà, al diritto di immaginare come potrebbe e dovrebbe essere la società.

 

 

Un testo di 2600 anni fa, quanto mai attuale per le città di oggi, in cui convivono persone di nazionalità e fedi diverse. Eppure, oggi ci sono governi che reclamano l’omogeneità della popolazione. Succede in Arabia Saudita, dove gli stranieri sono trattati alla stregua di schiavi: in base al sistema qawama, del guardiano, appena si viene assunti occorre consegnare il passaporto e dipendere dal datore di lavoro. Succede in Israele, dove i palestinesi hanno vita grama. E succede sempre più alle nostre latitudini, dove le merendine sono offerte soltanto ai bambini italiani.

Ma restiamo in Medio Oriente. Paesi come l’Arabia Saudita e Israele si sono alleati per fare guerra all’Iran, aiutati dagli americani che vendono loro armi e ancora non hanno digerito l’affronto della presa degli ostaggi nell’ambasciata statunitense a Teheran il 4 novembre 1979: un triangolo maledetto il cui obiettivo è fare a pezzi l’Iran, per ridurlo a piccoli stati nazione su base etnica e religiosa: uno per i baluci sunniti nel sud-est, uno per gli arabi nel sud-ovest, e poi un Kurdistan indipendente, e così via. Per ottenere la frammentazione dell’Iran, sono pronti a tutto. Anche a finanziare gruppi jihadisti.

Tutto questo, alla luce del sole: incontrando il premier israeliano Benyamin Netanyahu prima dell’apertura della conferenza a Varsavia sul Medio Oriente in funzione anti-Teheran, il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dichiarato che «l’Iran è la principale minaccia in Medio Oriente e affrontare la Repubblica islamica è la chiave per arrivare alla pace nell’intera regione». Mentre Pompeo pronunciava queste parole, l’Iran veniva colpito da un attentato kamikaze: oltre 40 i pasdaran morti nella provincia sud-orientale del Sistan e Balucistan. A rivendicare l’attentato, più grave rispetto a quello di settembre nel Khuzestan, il gruppo jihadista sunnita Jaish al-Adl: composto da ex militanti di Jundullah, il gruppo armato sunnita attivo tra Iran e Pakistan, smantellato due anni fa dalle forze di sicurezza iraniane.

Resta da vedere come si comporteranno gli iraniani. Difficile prevederlo, la storia lo dimostra. Nessuno aveva immaginato l’esito delle proteste di quarant’anni fa, perché era stata sottovalutata l’alleanza tra il bazar e la moschea: in Iran i mercanti hanno sempre finanziato gli ayatollah, che con i denari ricevuti stipendiano gli studenti dei seminari religiosi e portano avanti i loro interessi. Se in Iran nessuno aveva immaginato l’esito di quelle proteste, è anche perché in pochi sapevano che il colpo di Stato contro Mossadeq, colpevole di aver nazionalizzato il petrolio iraniano nel 1951, era stato sì architettato a Londra e messo in atto dalla Cia, ma gli americani avevano fallito: a dare la spallata finale per far cadere il premier, era stato il clero sciita messo in allerta dalle simpatie dimostrate da Mossadeq verso i comunisti.