Le manifestazioni globali per fermare il massacro in corso a Gaza arrivano alla Corte penale internazionale. Il 10 ottobre aveva preso parola il procuratore generale: i crimini di guerra commessi dal 7 ottobre tra Israele e Palestina ricadono sotto la giurisdizione della Corte. Ieri all’Aia la polizia olandese ha arrestato 19 attivisti di Extinction Rebellion che chiedevano che il primo ministro Netanyahu fosse giudicato per crimini di guerra.

NELLE STESSE ORE la relatrice speciale Onu per l’indipendenza della magistratura, Margaret Satterthwaite, e quella per la protezione dei diritti umani, Fionnuala Ní Aoláin, si sono rivolte al team legale dell’esercito israeliano per consigliargli di non dare luce verde a nessun atto che violi il diritto internazionale e che «potrebbe equivalere a crimini di guerra»: «Hanno il dovere professionale di negare l’autorizzazione legale ad atti criminali».

Un dibattito stringente quello sulla violazione del diritto internazionale che trova spazio nei media israeliani ma che non tocca i vertici del paese. In Israele a tenere banco nelle stanze governative è una strisciante crisi interna che ruota tutta intorno alla figura di Benyamin Netanyahu.

Secondo il quotidiano Yedioth Ahronoth, tre ministri – non indica i nomi – avrebbero minacciato le dimissioni come segnale politico a un premier che non ha ancora detto una parola sul fallimento dell’intelligence e della difesa nell’intercettare prima e nel reagire poi all’attacco di Hamas del 7 ottobre. Se ieri il predecessore di Netanyahu a primo ministro, Naftali Bennett, ha ammesso le sue di colpe, ad alzare la temperatura è il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir.

LEADER dell’ultradestra, immortalato nei giorni scorsi a distribuire decine di migliaia di fucili ai coloni in Cisgiordania, Ben Gvir ha chiesto di allargare il gabinetto di guerra, una sorta di mini-esecutivo di unità con il leader di opposizione Benny Gantz e il ministro della Difesa Yoav Gallant, necessari a Bibi per compattare il paese intorno all’operazione speciale contro Gaza e a evitare una commissione d’inchiesta.

Quelle tre persone – Netanyahu, Gantz e Gallant – sono le responsabili del disastro, dice Ben Gvir, vanno affiancate da un quarto ministro, magari proprio lui. Un personaggio che da mesi viene marginalizzato da esercito e servizi per le sue posizioni estreme tanto da non essere spesso invitato ai vertici di massima sicurezza.

Ma la questione centrale restano gli ostaggi, 222 secondo il bilancio di ieri dal governo dopo la liberazione da parte di Hamas di due cittadine Usa. Le proteste delle famiglie dei rapiti non cessano, spinte da un senso di abbandono tangibile. Dietro le quinte si negozia: ieri sera quella che era un’indiscrezione di media israeliani e statunitensi sul rilascio di 50 ostaggi con doppia nazionalità, si è fatta più concreta per due di loro: Nurit Yitzhak e Yocheved Levschitz sono stati rilasciati.

LA CROCE ROSSA li ha portati fuori fa Gaza, mentre la Casa bianca parla di negoziati che continuano. Il movimento islamista sarebbe pronto a liberarne altri dopo uno stretto dialogo tra Washington e Doha, principale «protettore» arabo di Hamas, in cambio di aiuti umanitari.

Il negoziato appare nei fatti l’unica via: operazioni mirate via terra non riuscirebbero individuare un numero tanto alto di persone, probabilmente distribuite da Hamas su tutto il territorio della Striscia. Israele lo sa. Anche per questo – alla luce degli scambi degli anni passati – procede a ritmi impressionanti all’arresto di palestinesi in Cisgiordania.

Moltissimi ex detenuti amministrativi, imprigionati senza accuse né processo, che si ritrovano oggi dietro le sbarre senza aver commesso alcun crimine ma ostaggi loro stessi di un eventuale futuro negoziato.

Ieri la Association for Civil Rights in Israel, Physicians for Human Rights-Israel e The Public Committee Against Torture in Israel hanno presentato ricorso alla Corte suprema del paese perché stracci il disegno di legge che autorizzerebbe lo Stato ad ammassare sul pavimento i detenuti politici palestinesi – in assenza di letti nelle celle – e gli istituti penitenziari ad accettare nuovi prigionieri oltre il numero massimo consentito. Una legge, scrivono, che è «una punizione crudele e disumana».