«Nelle prossime ore vedrete la più grande campagna aerea della storia della Libia: tutte le posizioni e gli interessi della Turchia sono obiettivi legittimi per i nostri aerei».

Le parole di due giorni fa del capo dell’aereonautica militare delle forze dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl), Saqr al-Jaroushi, confermano quello che ormai è evidente da tempo: la vittoria della guerra in Libia passa sempre più nel dominio nei cieli.

Lo sa bene il capo dell’Enl, il generale Khalifa Haftar, che in quest’ultimo mese ha perso gran parte del controllo della Tripolitania (nord ovest) proprio a causa del contributo decisivo dei droni turchi che stanno facendo le fortune del Governo di Accordo nazionale di Tripoli (Gna).

La perdita lunedì della base aerea di al-Watiya, strategica per l’Enl per conquistare Tripoli, ha segnato uno spartiacque del conflitto: il Gna del premier al-Sarraj avanza ormai su diversi fronti nella zona sud della capitale, ha preso possesso negli ultimi due giorni della città di Mizda (180 km da Tripoli) e delle cittadine di Asbia’ah e Jandouba e vede ormai vicina la riconquista di Tarhouna.

Haftar non vuole però rassegnarsi alla sconfitta e ha provato ieri a ridurre il gap nei cieli grazie all’arrivo di otto caccia russi (sei Mig-29 e due bombardieri Su-24S) che, scrive Agenzia Nova, erano stati dati in precedenza da Mosca al presidente siriano al-Asad. Un altro elemento quest’ultimo, qualora fosse confermato, che mostra come le due guerre – quella siriana e libica – siano sempre di più vasi comunicanti.

A complicare il quadro libico e a riportarlo su binari sempre più siriani c’è poi l’eventuale coinvolgimento dell’Iran denunciato l’altro giorno dall’Osservatorio siriano dei diritti umani (Osdi), la ong di stanza a Londra e vicina all’opposizione di Damasco.

Se Osdi – da mesi in prima linea nello stigmatizzare la presenza di mercenari siriani da entrambe le parti del conflitto – ha riferito di un volo della compagnia aerea “Sham Wings” partito da Teheran e atterrato a Bengasi il 20 maggio, ben più dure sono le accuse contro la Repubblica islamica che giungono dal governo israeliano: in una lettera datata 8 maggio inviata al segretario dell’Onu Guterres, l’ambasciatore israeliano alle Nazioni unite, Danny Danon, ha accusato l’Iran di inviare armi ad Haftar.

Comunque stiano le cose, quel che è certo è che l’escalation militare in Libia sembra ormai inevitabile. «La Turchia – ha detto due giorni fa il portavoce del ministero degli Esteri turco Hami Aksoy rispondendo ad al-Jaroushi – riterrà le forze di Haftar come un obiettivo legittimo se attaccheranno gli interessi di Ankara in Libia».

Parole dure che stridono con le dichiarazioni di giovedì dei ministri degli esteri turchi e russi ai rispettivi attori locali: stop alle violenze e ripresa del processo di pace. Russia e Turchia sembrano gestire il dossier Libia sempre più come fosse la provincia siriana di Idlib o il Rojava curdo: dettano i tempi e mosse ai rispettivi partner.

A restare fuori dalla partita libica è sempre più l’Italia, nonostante il ministro degli Esteri Di Maio millanti un ruolo da protagonista. Le ambiguità di Roma hanno scontentato tutti e due gli attori locali: pur sostenendo il Gna, il governo Conte ha aperto alla Cirenaica a novembre quando Haftar sembrava ormai prossimo a conquistare Tripoli.

Senza dimenticare che Roma, come ha scritto Chiara Cruciati su questo giornale, continua a vendere armi agli egiziani, nemici giurati del Gna di al-Sarraj. Ambiguità, se non proprio tradimenti, che Tripoli, che sente ormai vicina la vittoria, non ha dimenticato.

Il prezzo dei giochi della geopolitica li pagano però sempre più i civili: solo dall’inizio di aprile, 58 civili sono stati uccisi negli attacchi di Haftar.

E se il Gna invita gli sfollati dalle zone degli scontri a sud di Tripoli a non tornare nelle loro case in questo momento perché «potrebbero essere minate» dall’Enl, Bengasi a sua volta risponde denunciando le violenze e razzie ad Asabi’ya verso i cittadini che hanno simpatizzato per l’esercito cirenaico.