E’ l’unico Paese al mondo a vietare la guida alle donne. Ma l’Arabia saudita, custode oltre che della Mecca e di Medina anche degli interessi occidentali in Medio Oriente e stretta alleata della superpotenza americana, passerà alla storia anche come lo Stato dove due giovani – Loujain Hathloul, 25 anni, e Maysaa al Amoudi, 33 anni -, solo per aver deciso di mettersi al volante, saranno processate per “terrorismo”. Lo denunciano amici delle due donne e attivisti dei diritti umani, sottolineando che i giudici potrebbero sentenziare pene davvero pesanti, oltre ogni aspettativa. Loujain e Maysaa peraltro hanno già battuto un “record” nazionale: la detenzione più lunga per avere guidato. Sono in carcere da quasi un mese. Non era mai accaduto alle altre saudite che prima di loro avevano deciso di opporsi a una assurdità che non ha alcun legame con l’Islam e che è figlia della sottocultura tribale che domina il regno dei Saud. Nessuna legge formale vieta alle donne di guidare in Arabia Saudita ma i religiosi ultraconservatori hanno emesso fatwe (editti) molto rigidi in materia e le autorità “civili” non rilasciano le patenti di guida. Nel 1990, cinquanta donne furono arrestate per aver guidato. Si videro confiscare i passaporti e in non pochi casi persero il il lavoro. Più di 20 anni dopo, nel 2011, una donna è stata condannata a dieci frustate per essersi messa a volante (il re ha poi annullato la sentenza).

Loujain Hathloul e Maysaa al Amoudi sono piuttosto note nei social network. La prima ha ben 228mila follower su Twitter, la seconda oltre 130mila. Insieme hanno creato un programma su Youtube a favore del riconoscimento del diritto delle saudite alla guida, una battaglia che per loro è simbolica della lotta per il conseguimento di altri diritti negati alle donne, come quello a votare o viaggiare senza farsi obbligatoriamente accompagnare da un “tutore”. Lanciata oltre un anno fa – ad ottobre del 2013 sedici donne furono state fermate mentre erano al volante e hanno poi dovuto pagare multe salate – la petizione che chiede di eliminare il divieto di guida ha raccolto migliaia di firme. Anche molti uomini hanno esortato le loro compagne ad infrangere il divieto e a postare le loro immagini mentre guidano sotto l’hashtag #IwillDriveMyself. Successi che non hanno scosso le gerarchie religiose wahabite, vicine dal punto di vista dottrinale al salafismo radicale che ispira i leader dello Stato Islamico in Iraq e Siria.

Loujain Hathloul, il primo dicembre, ha perciò deciso di schiacciare l’acceleratore della trasformazione e di tentare di andare in auto dagli Emirati in Arabia saudita, grazie ad una patente ottenuta a Dubai. Ma è stata arrestata dalle guardie di frontiera che poi hanno fermato Maysaa al Amoudi, saudita anche lei ma trasferitasi negli Emirati, per aver difeso e portato del cibo a Loujain. «Il loro caso sarà discusso davanti ad un tribunale antiterrorismo», ha riferito allarmato un attivista. Il timore è che l’asse monarchia-gerarchie religiose abbia l’intenzione di dare una lezione molto dura alle due “automobiliste illegali” in modo da scoraggiare altre donne. Gli avvocati sono pronti a ricorrere in appello contro il probabile pugno di ferro dei giudici. Le corti antiterrorismo sono state istituite ufficialmente per giudicare i membri di organizzazioni armate legate ad al Qaeda ma in questi ultimi anni ha inflitto lunghe pene detentive anche ad attivisti per i diritti umani, dissidenti politici e critici del governo. Quest’anno hanno condannato a morte per sedizione un importante esponente religioso della minoranza sciita, lo sceicco Nimr al-Nimr, una voce critica del potere dei Saud, e fatto sbattere in carcere un avvocato per i diritti umani di spicco, Walid Abul-Khair, con l’accusa di incitamento. Human Rights Watch avverte che «le autorità saudite sono impegnate in attività repressive nei confronti di persone che criticano pacificamente il governo su Internet», usando la legge anti-cybercrime in modo da condannare cittadini sauditi per tweets pacifici e commenti sui social media. Centinaia di persone di recente sono state arrestate come “sospetti terroristi”. E migliaia sono i prigionieri di coscienza.

Le donne, denuncia da parte sua Amnesty International, continuano a subire gravi discriminazioni, nonostante alcuni segnali di riforma, e ben poco conta il fatto che una di loro sia stata nominata vice ministro. Pesano sempre le disposizioni che regolano il divorzio e la custodia dei figli, l’assenza di una legge che criminalizzi la violenza sulle donne e i pesanti abusi che subiscono le lavoratrici domestiche di fatto non sono riconosciuti dallo Stato. Inoltre i musulmani sciiti e i praticanti di altre confessioni sono presi di mira e i diritti di migranti, rifugiati e richiedenti asilo sono violati. Leggi poco chiare sono impiegate per reprimere la libertà di espressione. Tortura e altri maltrattamenti di detenuti sono sistematici e condotti nell’impunità. Tra i metodi usati ci sono pestaggi, scosse elettriche, sospensione per gli arti, privazione del sonno e insulti. Sono comminate con frequenza regolare condanne alla fustigazione. La pena capitale è applicata in maniera estensiva. Molte decine di persone sono messe a morte ogni anno, tra queste anche minorenni.

Di fronte a ciò i governi europei ed americano, tranne qualche rara eccezione, rimangono in silenzio, fingono di non vedere, pur di non compromettere i rapporti con la potente famiglia reale Saud, garanzia da molti decenni degli interessi occidentali in Medio Oriente.