Euclides Tsakalotos, greco al 100 %, ma in realtà nato a Rotterdam e cresciuto in Inghilterra, laureato a Cambridge e docente all’Università di Kent, nel suo paese è tornato a stare per passione politica e senso del dovere.

Nei drammatici giorni del 2015, quando si formò in Grecia  il governo Tsipras, fu nominato vice ministro degli esteri addetto alle relazioni internazionali per l’economia. Sostituì l’allora ministro delle finanze Varufakis al momento della rottura, e ormai da quasi quattro anni è lui che regge il pesantissimo fardello di questo dicastero impegnato a rendere un po’ più umane le misure punitive imposte da Bruxelles. Euclides – che incontro nel pieno della campagna elettorale per il Parlamento Europeo nel suo ufficio ateniese – è ottimista.

Euclides, il peggio è davvero passato?

Il peggio è passato. E il peggio è stato soprattutto il taglio delle pensioni, anche se noi abbiamo cercato di renderlo un po’ meno doloroso di quanto avrebbe fatto la destra. Ma comunque, rispetto a quanto ci aspettavamo 4 anni fa, è andata meglio del previsto. E così siamo riusciti ora a reintrodurre la contrattazione collettiva che avevamo dovuto sospendere, ad elevare il salario minimo, abbiamo potuto fare qualche passo sulla strada della costruzione di un welfare più adeguato, soprattutto nel settore della sanità. Insomma: per la prima volta dal 2009 la Grecia ha un bilancio espansivo che non include misure di austerità ma riduzione di tasse, e aumenti delle spese sociali. I cambiamenti introdotti nella politica fiscale sono stati attuati attraverso misure volte a ridurre permanentemente i contributi fiscali e previdenziali delle famiglie e delle imprese e, parallelamente, volte a rendere più efficace la protezione sociale e a stimolare l’occupazione dei giovani. Abbiamo potuto farlo grazie alla crescita (più 1,9% )e l’avanzo primario (4,4% del Pil) della Grecia nel 2018, mentre per il 2019 la crescita sarà del 2,4%. Le proiezioni sono positive anche per quel che riguarda i prossimi due anni. L’economia dunque, sia pure lentamente è ripartita, il Pil è cresciuto. La Grecia ha, per fortuna, una grande flessibilità, perché è caratterizzata da tantissime piccole imprese che in questi anni duri si sono arrangiate. Naturalmente Nuova Democrazia ci attacca per quanto siamo faticosamente riusciti a fare. Proponendo di tornare al liberismo più puro, e perciò di abolire per sempre la tredicesima, di allungare l’orario di lavoro, di tagliare tutto il possibile. In nome dell’efficienza che il mercato richiede. E la cosa più triste è che anche quanto resta del Pasok ( il partito socialista ),per via soprattutto della spinta impressa dal suo attuale leadership, quella di Gennimatà e di Venizelos (che punta ad un’alleanza con la destra) sta spalleggiando questa linea scopertamente liberista. I nemici non ci mancano, a cominciare da media analoghi a quelli latinoamericani: apertamente dalla parte dei poteri economici forti. E alimentando le manifestazioni nazionaliste, del resto animate persino dal Pasok in odio al governo Tsipras per via del sacrosanto accordo che ha finalmente concluso il contenzioso sulla patria di Alessandro Magno consentendo alla ex Macedonia jugoslava di chiamarsi Macedonia del nord.

Torniamo all’economia e, come è naturale, all’euro. Buono, cattivo, che farne?

Anche ad un economista conservatore, non solo a uno di sinistra come me – l’eurozona, per come ne è stata disegnata l’architettura, appare fragile, anzi necessariamente instabile. Assai diverse , come si sa, sono le analoghe zone monetarie che sono state costruite negli stati a struttura federale: negli Usa, in Canada, in Australia. Tutte fondate su un più intelligente equilibrio fra bilancio centrale e locale. E, soprattutto, dotati di una banca centrale che oltreché assumere altri criteri di valutazione (per es. il livello di occupazione, come la Federal Bank americana) sono dotate del ruolo di prestatori di ultima istanza. Un potere che non ha la Bce. Draghi,In termini di politica monetaria ha in realtà fatto quello che poteva fare, ma il problema è che la crisi non era solo monetaria, ma molto più grossa, e ha reso evidenti tutti i limiti della Bce, priva del potere necessario ad operare un intervento efficace. Innanzitutto quello di prestare danaro agli stati per finanziare gli investimenti pubblici necessari alla ripresa. E così – in nome del neoliberismo – le sue operazioni hanno finito per favorire solo il mercato finanziario e quindi le banche.

Euclides, secondo te bisognerebbe abbandonare l’eurozona, come anche qualcuno a sinistra suggerisce?

Io credo che se anche un solo paese lasciasse l’eurozona decreterebbe di fatto la sua fine. L’unione monetaria è uno strumento che garantisce che non ci sarà nessuno che potrà ricorrere alle svalutazioni monetarie, mai. Se un paese se ne va, la promessa di questa garanzia salta. E si innescherebbe inevitabilmente una catena di uscite. E l’eurozona salterebbe. E però un simile processo avverrebbe sotto l’egemonia della destra sovranista, non della sinistra. Non c’è una «uscita» di classe, insomma, ma solo nazionalista. Produrrebbe solo disgregazione, non solo dell’eurozona ma dell’Unione Europea in quanto tale. Nessun problema sociale – a partire dalla diseguaglianza crescente – troverebbe soluzione. I problemi ormai sono sovranazionali ma lo sono anche le soluzioni. Per affrontare davvero questi problemi occorre imboccare un’altra strada, si deve puntare a una trasformazione sociale dell’eurozona. A partire dalla gestione dei bilanci che dovrebbero ubbidire a criteri che oggi non esistono. Delors aveva già suggerito (ai tempi del Trattato di Maastricht) di tener conto del livello di disoccupazione, ma la sua proposta cadde nel vuoto. Oggi io credo che sarebbe meglio indicare criteri che impongano di tener conto delle conseguenze sociali di ogni misura che viene adottata. Il vero problema delle istituzioni europee è stato proprio di non aver capito il carattere della crisi scoppiata nel 2008. Credevano che sarebbe stata breve, non si sono resi conto di quale disuguaglianza – economica e sociale – avrebbe generato. Solo in questi ultimi due anni l’Eurogruppo ha cominciato a capire. Anche per via della presenza, ora, di rappresentanti di governi diversi, quelli che hanno, o stanno cercando, di imboccare un’altra linea politica: quelli socialisti portoghese e spagnolo, alleati con la sinistra, non piegati verso il centro, o, peggio, verso la destra. Prima del Natale scorso, per esempio, si è riusciti a fare nell’Eurogruppo una riflessione sul perché i salari non sono cresciuti in rapporto all’aumento della produttività, è stata una discussione inimmaginabile fino a qualche tempo fa. Si vede che qualcosa imparano. Anche a prendere atto del grande problema dell’impoverimento dei ceti medi, impauriti dalle prospettive del loro lavoro e per l’avvenire dei figli. Paure che purtroppo li spingono a destra. Quando il liberismo è stato egemonico, le forze politiche centriste che lo hanno sostenuto, sono state appoggiate dai ceti medi, ora non è più così : purtroppo si sono spostate su forze peggiori. Di qui il declino dei partiti democristiano-popolari e socialdemocratici, in Francia, in Germania, e altrove. ll neoliberalismo, intendiamoci, resta forte, ma non è più egemonico, perché la sua strategia non riesce a tener insieme ceti medi e classe operaia, la «società dei due terzi» è morta, e con questa, la stabilità sociale del passato.

Euclides, se tu dovessi prendere il posto di Junker, a capo della Commissione, che faresti?

Innanzitutto imporrei – come accennavo prima – di esaminare l’impatto sociale di ogni decisione che si assume. Cercherei di individuare i rischi che si presentano per poi, però, socializzarli. Insomma: cancellerei il “no bail out” ( la norma che impone a uno stato membro di non aiutare un altro in difficoltà), e anzi introdurrei il “bail out”. Si sarebbe dovuto fare così per la Grecia. E invece si è fatto il contrario. A cominciare dall’Italia che ora si trova intrappolata nella crisi più grave del dopoguerra.

E per la Grecia, quale prospettiva, quale modello, ora che potete finalmente perseguire un progetto senza l’ossessione della Troika?

Il modello che noi perseguiamo è contrario alle priorità neoliberiste. La nostra politica fiscale mira a produrre sgravi equi e al contempo a soddisfare i principali bisogni sociali. Per quanto riguarda lo sviluppo, sosteniamo l’ imprenditorialità «sana»e le piccole e medie aziende, ma anche e soprattutto a rafforzare il settore dell’economia sociale: le cooperative e le comunità energetiche, per esempio. Sappiamo che questo richiede forze sociali dinamiche capaci di sfruttare un nuovo quadro giuridico che stiamo creando. Poiché siamo gente di sinistra, siamo consapevoli che le leggi e il sostegno di un governo di sinistra rappresentano solo un catalizzatore. Gli obiettivi produttivi alternativi devono essere sostenuti dalle forze sociali. Per la sinistra questa è la grande scommessa nella prossima fase. Così come un’Unione Europea che appoggi tali obiettivi e non leghi il suo nome all’austerità.