Una critica al governo Renzi che non si limiti all’occasionale può svolgersi appuntando l’attenzione sui materiali che emergono in questi passaggi convulsi della crisi italiana. Quali? Eccone un elenco disordinato: l’esplosione dell’assenteismo nel voto regionale; il persistere delle mobilitazioni contro il Jobs Act; le continue accelerazioni impresse dal governo alle «riforme» e l’approfondirsi dello scontro coi sindacati; la sempre più scomposta insofferenza del premier alle critiche, puntualmente respinte al mittente con una sovratassa di insulti. La domanda da porsi è se sia possibile collocare questi fenomeni in un quadro unitario.

Con ogni evidenza, a Renzi interessa soltanto governare: essere lui a esercitare il potere. Egli è, in questo, il paradigma del «piccolo politico» che antepone alla realtà la propria persona (il proprio «caro Io», direbbe il filosofo). Tutto quel che Renzi fa e dice si spiega così e soltanto così. Da ultimo, la grottesca liquidazione dell’astensionismo alle regionali («un fatto secondario»), troppo insulsa per non essere letta come l’ostentata conferma del proprio hic manebimus, costi quel che costi.

Avendo soltanto questo fine, Renzi è portato a concepire in termini strumentali il consenso, che ha valore ai suoi occhi soltanto come strumento di legittimazione di decisioni già assunte. A Renzi non importa interrogare il corpo sociale né tanto meno ascoltarne la voce. Gli interessa imporsi. Per questo, pur di proseguire nell’avventura del comando, vuole il consenso: a tutti i costi e con ogni mezzo (il ricatto, la seduzione, la comunicazione compulsiva). Altrimenti semplicemente lo millanta.
Ma la realtà è un’altra cosa. Eccede il perimetro del potere che satura un immaginario infantile e – mentre l’effimera parabola di questo governo si viene consumando – continua nella sua metamorfosi, trasformando il paesaggio sociale, politico e morale del paese.

Riprendiamo ora i materiali apparentemente sconnessi che caratterizzano quest’ultima fase. Le reazioni di Renzi alle critiche hanno una cifra costante. Contro il nemico interno, egli solletica le pulsioni più retrive, con ciò tradendo un sicuro istinto autoritario. Il sarcasmo nei confronti di chi sciopera incoraggia il risentimento anti-operaio duro a morire nel ceto medio italiano e fomenta le divisioni nel mondo del lavoro. La campagna contro gli sprechi, imputati sistematicamente ad altri, alimenta il rancore antipolitico. L’attacco ai «professoroni» rientra nel tradizionale armamentario dello squadrismo che liscia il pelo al livore plebeo. Il lavoro quotidiano della comunicazione renziana, incentrata sulla pretesa necessità di accelerare le «riforme» contro i «frenatori», avvelena il paese, già fiaccato da vent’anni di berlusconismo. E di altro veleno conseguentemente assetato.
Quando Maurizio Landini se n’è uscito con quella frase sul consenso degli onesti si è scatenata la canea, come se non si fosse capito perfettamente cosa intendeva dire. È inaccettabile che, in una repubblica fondata sull’evasione fiscale, al lavoro, che manda avanti il paese, vengano negati gli ultimi diritti. E che a compiere questo capolavoro di democrazia sia per sovrappiù un governo che si pretende, in parte, erede della sinistra. Un «grande» giornale del nord per colpire Landini ha pensato bene di accusarlo di moralismo. Come se non ci fosse in Italia un bisogno impellente di moralità, mentre affondiamo nel verminaio della corruzione e la disuguaglianza raggiunge picchi insultanti per chi conservi un barlume di dignità.

Della sete di veleno che si diffonde anche le ultime regionali sono un bel segno, se si considera il successo della Lega nella versione nazional-razzista che manda in estasi la Marine Le Pen. Renzi gioca con un fuoco che ci minaccia tutti. Se si facesse un giro (senza scorta) nelle periferie metropolitane o nel deserto del sud, si accorgerebbe della fatica dei nuovi «miserabili» sui quali imperversa, e della rabbia sacrosanta che li scuote. Gli gioverebbe anche qualche esperienza sui trenini dei pendolari in seconda classe. Forse uscirebbe dal film tutto glamour in cui vive, e ci penserebbe due volte prima di fare battute da caserma su chi sciopera.

Ma è anche vero che questo paese possiede ancora una sorprendente carica di vitalità democratica. Che da settimane in tutta Italia le piazze della protesta operaia si riempiano non è un dato trascurabile, dopo anni di crisi dell’iniziativa sindacale e nella confusione di un quadro politico che nega voce al mondo del lavoro. La frantumazione del salariato, la disoccupazione e la precarietà, la distruzione dei diritti e la nuova povertà non sono ancora bastate ad «asfaltare» la soggettività operaia. Lo sciopero generale del 12 sarà un momento-chiave in questa vicenda. Renzi avrà un bel simulare sicurezza, ma quel giorno imploderà un altro pezzo del suo traballante castello di carte.
Un altro pezzo, dopo quanto è accaduto alle regionali in Calabria e soprattutto in Emilia-Romagna. Che nella regione italiana più politicizzata e più a sinistra soltanto un elettore su tre abbia votato è un fatto di portata storica che certifica la crisi di legittimazione del quadro politico-istituzionale. Che nella sola roccaforte emiliano-romagnola il Pd abbia perso quasi 700mila voti dice che la campana suona a morto per questo governo, comunque si interpretino le intenzioni di chi ha disertato le urne.

Dopodiché vedremo chi sarà capace di incassare i frutti di questa nuova fase della crisi italiana. C’è una destra minacciosa che aizza all’odio e sogna un nuovo ordine fondato sulla gerarchia. C’è tanta parte della società che sta finalmente imparando a diffidare delle rituali promesse di cambiamento. C’è una sinistra che ha ricominciato a far sentire la propria voce nelle piazze. È superfluo aggiungere che dalla forza di questa voce dipendono oggi le sorti della nostra democrazia. In attesa che, superate le proprie anacronistiche divisioni, la sinistra rinasca anche nelle istituzioni.