Più di un secolo dopo lo sterminio di un milione e mezzo di armeni da parte delle truppe dell’allora Impero Ottomano, l’attuale presidente americano Joe Biden riconoscerà che si trattò di genocidio. La notizia, rivelata a metà settimana dal New York Times che citava «fonti ufficiali interne all’esecutivo» ha fatto in breve il giro del mondo suscitando reazioni opposte e grande attesa per il discorso previsto oggi.

Se da un lato il ministro degli Esteri armeno ha dichiarato che «non si tratta di Armenia e Turchia ma del nostro obbligo di riconoscere e condannare i genocidi del passato, del presente e del futuro»; dall’altro il suo collega turco, Mevlut Cavusoglu, ha sottolineato – con una minaccia non troppo velata – che «delle dichiarazioni che non hanno alcun vincolo giuridico non porteranno alcun beneficio, ma danneggeranno solo i rapporti diplomatici: se gli Stati uniti vogliono farlo, la decisione è loro».

L’IMPORTANZA di tale riconoscimento va oltre la sua valenza storica (pur non sminuendola) e fa rima con il cambiamento della strategia statunitense in Medioriente e nel Caucaso e il progressivo deteriorarsi dell’alleanza con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Del resto, se Biden voleva davvero dare un segnale forte al governo di Ankara non poteva scegliere occasione più eclatante. Il 24 aprile è da decenni un momento sacro per gli armeni, il giorno in cui si piangono gli antenati, si lamenta l’inizio della «diaspora armena» e si chiede giustizia al mondo.

IL 24 APRILE DEL 1915, infatti, mentre la I Guerra Mondiale già si rivelava tutt’altro che una “guerra lampo”, diverse centinaia di intellettuali armeni furono radunati, arrestati e poi giustiziati dalle forze di polizia ottomane. Gli storici considerano questa data come l’inizio di una campagna sistematica durata anni che portò i 2,2 milioni di armeni allora presenti nell’Impero Ottomano a ridursi a 400 mila. Dal canto suo, la Turchia ha sempre ammesso che molti armeni siano stati uccisi negli scontri con le forze nazionali ma contesta la cifra delle vittime e nega ogni sistematicità e premeditazione nelle uccisioni.

PERCIÒ I POLITICI e gli intellettuali armeni rimasti in patria e i quasi 5 milioni di armeni residenti all’estero (soprattutto in Russia, Usa e Francia) ne hanno fatto una vera e propria battaglia ideologica. È opportuno ricordare, tra l’altro, che tale sforzo non è stato infruttuoso, negli anni 29 Paesi (tra cui l’Italia) hanno approvato risoluzioni simili a quella che oggi gli Usa potrebbero ufficializzare.

D’altronde, il merito non è solo della pressione crescente dei molti cittadini americani di origine armena né della lettera scritta da cento deputati americani al presidente affinché si rompa «questo vergognoso silenzio durato troppo a lungo». Il punto focale sembra essere la rivalutazione (al ribasso) dell’importanza strategica della Turchia per gli Stati uniti.

ANKARA NEGLI ANNI si è ritagliata il ruolo di interlocutore privilegiato dell’Occidente assumendosi l’onere di sbarrare le tratte migratorie terrestri con ogni mezzo coercitivo possibile, di ospitare le basi missilistiche della Nato, di cui è uno dei membri di punta nonché uno degli eserciti più potenti, e di fungere da teatro operativo delle truppe Usa nell’area mediorientale e caucasica. Tutti compiti lautamente retribuiti sia in termini economici sia in termini diplomatici che hanno causato non poco imbarazzo ai politici occidentali di fronte alla crescente aggressività del governo di Erdogan a Cipro Ovest, in Libia o nell’ultimo conflitto tra Azerbaijan e Armenia. Senza contare le denunce delle organizzazioni umanitarie circa la dura repressione del dissenso interno o il trattamento dei migranti.

Finora c’era stato solo silenzio, ma il gioco sembra essersi rotto. L’auspicio è che questo riconoscimento muova la comunità internazionale a non aspettare altri 106 anni per fermare le violenze che, oggi stesso, sono perpetrate nella stessa regione ai danni del popolo curdo.