Il fascino degli abissi e del mare aperto raccontati Jules Verne in Ventimila leghe sotto i mari torna in mente davanti a un accordo internazionale concluso da pochi giorni. Nottetempo, dopo negoziati anche burrascosi, 193 Stati membri dell’Onu riuniti nel quinto round negoziale della Conferenza intergovernativa sulla biodiversità marina delle aree al di fuori della giurisdizione nazionale hanno approvato un trattato globale sull’alto mare, o sugli oceani.

LO STORICO ACCORDO, UNA VOLTA ratificato da almeno 60 stati sarà legalmente vincolante. Crea un quadro normativo che definisce i meccanismi per la conservazione e l’uso sostenibile della biodiversità marina nelle aree fuori dalla giurisdizione nazionale: uno spazio enorme, quasi il 65% dei mari. Spinto dallo sforzo di 54 paesi di vari continenti, l’accordo offre fra l’altro il meccanismo legale per applicare il famoso impegno 30×30 assunto lo scorso dicembre alla Cop15 dagli Stati parte della Convenzione Onu per la biodiversità (Cbd).

UNA RETE DI AREE MARINE protette anche in acque internazionali (Amp-int) concretizzerà insomma l’obiettivo di proteggere entro il 2030 il 30% dei mari del pianeta (come delle terre emerse). Obiettivo che sarebbe stato impossibile da realizzare senza coinvolgere le acque internazionali. In un’area marina protetta vigono diversi limiti ai prelievi e divieti di sfruttamento. Inoltre la Conferenza delle parti (Cop) creata dal trattato si incontrerà periodicamente per verificare il rispetto degli impegni. Sono poi previsti meccanismi di supervisione e controllo delle attività che sugli ecosistemi marini e le acque non territoriali avranno un grande impatto.

GLI ECOSISTEMI OCEANICI offrono benefici e servizi all’umanità. Habitat per milioni di specie, hanno ricche risorse spesso oggetto di rapina. Mitigano gli impatti dei cambiamenti climatici. Producono il 50% dell’ossigeno proveniente dalla natura. Assorbono ogni anno la gran parte del calore causato dai gas serra. Assorbono circa un terzo (secondo recenti ricerche) delle emissioni di carbonio dovute alle attività antropiche; sono il principale pozzo di carbonio. Ma ne pagano le spese. Il surriscaldamento degli oceani negli ultimi decenni mette a repentaglio la biodiversità. Suscita allarme, poi, l’acidificazione delle acque.

EPPURE FINORA L’ALTO MARE è stato terra di nessuno, senza legge o lambito da regole frammentarie che lo rendono molto più sfruttabile delle acque sottoposte alle giurisdizioni nazionali. E’ davvero protetto solo l’1,2% di queste acque non territoriali. La cosiddetta economia blu, con l’aumento del prelievo ittico, il moltiplicarsi delle rotte marittime commerciali, le prospettive dello sfruttamento minerario e la caccia alle risorse genetiche pone minacce crescenti alla biodiversità, che si aggiungono alla pressione climatica. Il nuovo trattato dà speranza.

PER GREENPEACE, LA «VITTORIA monumentale per la protezione degli oceani (aiutata anche da una petizione con 5,5 milioni di firme raccolte in tutto il mondo dall’organizzazione ecologista) conclude una «lunga marcia». L’idea di tutelare l’immensità oceanica con grandi aree protette risale agli inizi degli anni Duemila. Lo sviluppo di una proposta relativa all’alto mare porta in uno sforzo corale a realizzare una grande mappatura degli oceani del pianeta che individua le aree da privilegiare: Ecologically or Biologically Important Marine Areas (Ebsas). Dicembre 2022: i governi decidono il cosiddetto 30×30.

DOPO LA «TRAGEDIA DEI BENI COMUNI» (ovvero come l’egoismo e il tornaconto degradano ed esauriscono un bene comune) evocata da Jessica Battle, esperta di oceani e negoziatrice per il Wwf, in riferimento alla pesca eccessiva e a quella illegale (due fattori centrali del declino ambientale degli oceani), adesso si può aprire «una nuova era di responsabilità collettiva per i beni comuni più significativi del nostro pianeta a livello globale» sostiene l’organizzazione, accogliendo «con grande favore l’obbligo di effettuare valutazioni di impatto ambientale delle attività in alto mare, commisurate alla portata dell’impatto». Si pensi all’estrazione mineraria ma anche ai progetti di cattura e stoccaggio del carbonio.

SU UN PUNTO CHIAVE, LE RISORSE genetiche marine o meglio la ripartizione dei grandi benefici che ne derivano, l’accordo ha rischiato di fallire. La condivisione dei benefici (economici e non) è poi stata prevista. Il gruppo dei negoziatori africani ha apprezzato «l’adozione del principio chiave per l’alto mare: è un patrimonio comune dell’umanità. Era la nostra linea rossa». Ma cosa avverrà? Avverte, sul Guardian, Guy Standing, autore di The Blue Commons. Rescuing the Economy of the Sea: «Non è per nulla chiaro. Ci saranno di certo difficoltà nella condivisione dei benefici per oltre 1300 brevetti già depositati, in vista di ventennali profitti monopolistici. L’accordo verrà applicato retrospettivamente?».

ALTRO PUNTO OGGETTO DI DISCUSSIONE, rileva Greenpeace: «La Cop creata dal trattato potrà istituire santuari in acque internazionali. Ma secondo alcuni paesi, questo compito doveva spettare ai vari organismi internazionali che oggi regolano (o cercano di regolare) le attività di pesca negli oceani»: ma con risultati fallimentari.

SUL FUTURO DEL TRATTATO GRAVANO incognite. Non solo perché all’impegno 30×30 mancano solo 7 anni, ma per i moltissimi interessi in gioco che potrebbero frenare gli Stati. Ancora Standing ricorda che nel 1982 fu concluso un accordo multilaterale, la Convenzione Onu per il diritto del mare (Unclos), che predispose un organismo – la International Seabed Authority – per gestire i fondali internazionali e un sistema di condivisione dei benefici. Non partì fino al 1994 e ancora oggi non ha fatto praticamente nulla. Va detto che è priva di fondi. Inoltre poi «dovremmo anche ricordare che le aree marine nazionali sono di rado davvero protette». Anche nel Mediterraneo, ricordano gli ambientalisti.

AL MEDITERRANEO, spiega Wwf Italia, «il trattato fornirà uno strumento giuridico più forte di protezione, per ridurre l’impatto delle crescenti attività industriali e produttive». Ma, puntualizza Greenpeace, «gli Stati, compresa ovviamente l’Italia, dovranno tutelare anche il 30% delle loro acque territoriali: ne siamo ben lontani. Teoricamente (dati 2021) le aree marine italiane che ricadono nella Rete Natura 2000 coprono poco più del 13% del nostro territorio marino». Ma le aree davvero protette sono una porzione irrisoria, dell’ordine dello 0,01%. Il caso più eclatante è il Santuario dei cetacei del mar Ligure: 87.500 km2 protetti solo sulla carta».