Le elezioni amministrative torinesi non sono al centro della scena. Certo, Roma e Milano regalano ben altre soddisfazioni ai media. Ma il caso torinese, pur meno appariscente, non è di minor interesse. Chi vincerà? E perché? Nessuno, ovviamente, ha la risposta. I sondaggi ci restituiscono una grande incertezza, con i due candidati principali a pochi punti percentuali di differenza stimata. Il ballottaggio sembra l’unica certezza. Come andrà a finire? Per rispondere, con un dose di sano realismo, assumiamo che la differenza la faranno soprattutto le élite locali e la loro capacità di mobilitare il consenso. Un po’ di prospettiva può aiutare a chiarire qual è la posta in gioco.

Durante la Torino one company town, dalla metà degli anni 70 alla metà degli 80 (giunte Novelli), la Fiat dialogava direttamente con il livello nazionale e le élite locali svolgevano un ruolo secondario. La politica economica della città non era realmente nelle mani del governo locale: contava chi era capace di attivare legami verticali con il governo centrale e i suoi apparati. Era il periodo dei giochi a somma positiva tra capitale e lavoro, della crescita conflittuale della Torino operaia guidata da processi decisionali “gerarchici” che saltavano spesso il livello locale e dove la Fiat e gli altri attori contrattavano posizioni e strategie attraverso relazioni con il “centro”.

La crisi della Fiat negli anni ’80 lascia più spazio alle élite locali, che si organizzano in gruppi politico-affaristici fino ad allora estromessi dalle decisioni strategiche. Sono gli anni delle giunte pentapartito (1985-1992), che vedono alternarsi quattro sindaci alla guida della città. Sono anche gli anni in cui le élite locali si aggregano in modo netto in due campi contrapposti, creando le condizioni per la formazione di due gruppi “polarizzati”, uno nettamente “pro business” e uno “pro labour”, senza “mediatori” capaci di guidare l’azione collettiva.

Con la prima giunta Castellani (1993) si apre un nuovo periodo per le élite della città : nascono organizzazioni legate da forti legami orizzontali, con ampia possibilità di coordinamento e azione collettiva. Emergono importanti figure trasversali che godono della fiducia di tutti gli attori in campo e possono fluidificare i processi decisionali, evitando le “polarizzazioni”.

In una fase storica in cui il vecchio sistema partitico non è ancora tramontato, la formazione delle coalizioni coinvolge la società civile. Mentre Rifondazione e la Rete candidano l’ex sindaco Diego Novelli, Pds, Verdi e Alleanza per Torino (movimento che riunisce diversi ambienti del riformismo laico e cattolico) propongono il professore del Politecnico Valentino Castellani, ingegnere e cattolico. La candidatura è “certificata” da otto intellettuali legati alla sinistra ma indipendenti dai partiti (tra i quali Arnaldo Bagnasco, Nicola Tranfaglia e Gian Giacomo Migone). Questa nuova élite locale (che possiamo definire “policentrica”) non emerge dal nulla: si è formata in ambienti specifici della società civile (Fondazione Agnelli, progetto Tecnocity) e ha maturato nel tempo una comune “visione” circa le priorità per lo sviluppo di Torino. Ma – sino alla prima giunta Castellani – gli uomini (poche le donne) chiave occupavano posizioni “di seconda fila” nei processi decisionali locali.

Questa nuova governance torinese si caratterizza per una notevole capacità di cooperazione tra attori pubblici, privati e autonomie funzionali, che si coordinano spesso attraverso nuove organizzazioni dedicate a specifiche strategie di sviluppo della città. L’associazione per la pianificazione strategica di Torino ne è forse l’esempio più noto. È in questa fase che si mettono in cantiere iniziative di medio-lungo periodo, poco legate ad esigenze di consenso immediato: la metropolitana, la candidatura ai giochi olimpici, il ridisegno urbanistico della città, il sistema turistico locale.

Ma Castellani è percepito come un sindaco “freddo”, lontano dalle persone. I problemi più consistenti sono incontrati dalla giunta proprio su temi di grande impatto comunicativo: l’immigrazione e la sicurezza nei quartieri San Salvario e Porta Palazzo. La “questione sicurezza” e il deficit di comunicazione pubblica portano Castellani alla sconfitta al primo turno delle elezioni comunali del 1997. Il sindaco vince poi al ballottaggio con soli 4.700 voti di scarto, grazie all’alleanza con Rifondazione. La seconda giunta Castellani vede un ritorno dei partiti e dei professionisti della politica, a scapito della società civile. Dopo il 2001, con la prima giunta Chiamparino, il ritorno dei professionisti della politica sembra completo: i 17 assessori dei primi quattro anni sono tutti di provenienza partitica. Dal punto di vista dell’agenda di governo, la giunta Chiamparino è in totale continuità con i progetti avviati da Castellani: linea sotterranea della metropolitana, passante ferroviario, progetti edilizi, viabilità, Olimpiadi.

Una marcata discontinuità appare invece dal punto di vista formale e comunicativo: Chiamparino sceglie uno stile molto più presenzialista-decisionista e prende posizione in prima persona su molte questioni; si preoccupa di promuovere un rapporto diretto con i cittadini, attraverso le “udienze del sabato mattina”, ha visibilità pubblica e un’ampia copertura mediatica. Durante le giunte Chiamparino l’élite locale che ha sostenuto Castellani si consolida ulteriormente, anche in ruoli formali, strutture dedicate e carriere pubblico-privato. Chiamparino stesso ben rappresenta questo modello: sindaco di Torino per due mandati, presidente della Compagnia di San Paolo, governatore della Regione. Molti analisti denunciano un forte rischio di “tecnocrazia oligarchica”, basata su un sempre più labile collegamento tra l’inner circle delle élite locali e la cittadinanza nel suo insieme (si veda ad esempio la ricerca di Silvano Belligni e Stefania Ravazzi, “La politica e la città”).

Chi vincerà, quindi? Come a metà degli anni 90, siamo alla vigilia di un nuovo cambiamento “demografico” delle élite locali torinesi: l’élite policentrica che ha governato la città dalla metà degli anni 90 è invecchiata ed è incalzata da nuovi gruppi e interessi, che si riconoscono in un vocabolario politico fondato sui temi della partecipazione, trasparenza, innovazione sociale e tutela dei beni comuni. Si ripresenta quindi lo stesso scenario: una nuova classe dirigente si è formata lontano dai luoghi del potere, consolidando reti personali, temi condivisi e prospettive di cambiamento della città. Sono 30-40enni che si sentono pronti per passare all’azione e alla decisione “che conta”. Stufi di stare seduti in seconda fila. Vincerà chi saprà cogliere queste nuove tendenze, senza trascurare del tutto i centri di potere consolidati.

* professore associato di sociologia economica, Dipartimento CPS, Università di Torino