«Il mio film comincia dove finisce il ’titolone’, la breaking news, la notizia da raccontare» dice Gianfranco Rosi di Notturno e delle persone che lo hanno guidato «in un viaggio di tre anni nato dall’impulso, dopo Fuocoammare, «di andare dall’altra parte», da dove vengono in Europa tanti migranti, «e raccontare cosa succede lì».

NOTTURNO «perché l’idea iniziale era di girarlo tutto di notte dato che non conoscevo quei luoghi, non parlo la lingua: è come la notte che nasconde le cose e l’occhio ha bisogno di tempo per cominciare a distinguere i loro contorni nell’oscurità».
Il punto di partenza, spiega il regista, «è stata una telefonata – o meglio un messaggio vocale su whatsapp – che una ragazza yazida rapita dall’Isis ha mandato alla madre. Non capivo le parole ma dalla voce percepivo l’intensità della disperazione. Me lo ha fatto sentire il marito della ragazza tre anni fa, e da allora ho continuato a tornare in quei luoghi per cercare di raccontare la sua storia, ma la famiglia per motivi comprensibili non ha mai voluto apparire davanti alla macchina da presa. Poi ho saputo che la madre della ragazza, che era stata fatta prigioniera anche lei dall’Isis, era stata liberata e si trovava a Stoccarda. L’ho incontrata e lei stessa ha voluto essere filmata mentre ascoltava i messaggi della figlia, perché pensava fosse una storia importante da raccontare. Ancora oggi è prigioniera, e non si sa più cosa ne sia stato di lei».

LA CONDIZIONE che vivono le persone raccontate dal film è infatti «un confine fra vita e inferno»: con il suo documentario Rosi dice di aver cercato di mostrare «la profondità e l’universalità, il senso di un futuro sospeso racchiuso dalle loro storie, come nel volto del tredicenne Ali nell’immagine finale del film. Un futuro sospeso che è quello che in un certo senso stiamo vivendo anche noi in questo momento» – aggiunge riferendosi all’incertezza creata dalla pandemia, dal lockdown dal quale è rimasto «imprigionato» lui stesso appena tornato dal Medio Oriente. Iraq, Kurdistan, Siria, Libano, stati diversi che però non vengono indicati: «Volevo che il confine fosse più uno spazio mentale dato non dalla geografia ma dai personaggi».
Le persone e il loro inferno, come nella «stanza della memoria che ci mette a confronto con l’orrore» di ciò che l’Isis ha fatto alle comunità yazide, raccontato dai disegni e le parole dei bambini in una stanza dell’orfanotrofio «che è un po’ come una Norimberga, un processo alla Storia. Come con i cadaveri sul barcone in Fuocoammare mi sono chiesto a lungo se fosse il caso di inserire questa scena, se fosse giusto filmare o meno i bambini, ma credo sia necessaria perché testimonia l’orrore, racconta una verità storica».