«Questa mattina l’Idf (le forze armate, ndr) ha liberato Gerusalemme. Abbiamo riunito la Gerusalemme divisa, la capitale di Israele che era stata divisa in due. Abbiamo fatto ritorno ai nostri luoghi più sacri e siamo tornati per non abbandonarli mai più». Fu perentorio quel 10 giugno del 1967 il ministro della difesa israeliano Moshe Dayan. Poco prima era entrato nella città vecchia di Gerusalemme Est, araba, appena occupata militarmente, assieme al capo di stato maggiore Yitzhak Rabin e al comandante della regione centrale Uzi Narkis per suggellare la vittoria, rapida e devastante, delle forze aeree e di terra dello Stato ebraico sugli eserciti arabi. Parole come pietre quelle di Dayan. Se in questi cinquant’anni è andato avanti in Israele il dibattito se restituire, tutti o solo in minima parte, i territori palestinesi e arabi occupati nel 1967, su Gerusalemme i suoi leader politici hanno escluso la restituzione ai palestinesi della zona Est. «Dico al mondo intero e nel modo più chiaro possibile che Gerusalemme è stata e sarà sempre la capitale di Israele…Il Monte del Tempio (Spianata delle moschee, ndr) e il Muro occidentale (Muro del pianto, ndr) rimarranno sempre sotto la sovranità israeliana», ha proclamato il mese scorso il premier Benyamin Netanyahu, alla vigilia delle celebrazioni israeliane per il 50esimo anniversario della “riunificazione” di Gerusalemme. Celebrazioni culminate il 24 maggio nella Festa delle bandiere, quando decine di migliaia di israeliani, in maggioranza giovani e coloni giunti dagli insediamenti ebraici nella Cisgiordania occupata, hanno festeggiato l’anniversario con una marcia nelle strade di Gerusalemme Est e della Città Vecchia.

Le parole del primo ministro sono il riflesso di una posizione politica ben nota – espressa compiutamente dall’annessione unilaterale e mai riconosciuta dalla comunità internazionale di tutta Gerusalemme a Israele – e dei sentimenti della popolazione ebraica. Secondo un sondaggio pubblicato a inizio mese da Israel HaYom l’84% degli israeliani si oppone a una piena sovranità palestinese sulla Città Vecchia e il 67% è contrario anche a una sovranità palestinese solo parziale. Gli israeliani, notava il quotidiano, «preferiscono Gerusalemme a un accordo di pace». Lilia, una signora di mezz’età con un negozio nella zona ebraica (Ovest) della città, rappresenta questa fetta largamente maggioritaria di israeliani. «Mio padre – racconta – quando immigrò in Israele lo fece prima di tutto per vivere a Gerusalemme e per rimanere in questa città. Per noi ebrei Gerusalemme è tutto e deve rimanere intera sotto il nostro controllo». Gerusalemme, aggiunge perentoria, «non potrà mai essere la capitale di due Stati, è solo la capitale di Israele. Però la voglio aperta alle altre fedi, chiunque potrà avere il diritto di pregare nella nostra capitale».

Che questo diritto sia già garantito ai turisti stranieri che entrano in Israele è vero. Ben diverso è il caso di chi vive a ridosso di Gerusalemme, avendo in molti casi le sue radici, la storia della sua famiglia nella città. Persone che non possono entrarvi senza un’autorizzazione israeliana. Lo sanno bene coloro che vivono nei sobborghi di Abu Dis ed Ezzariya o a Betlemme e Ramallah, e in generale tutti i palestinesi che riescono, per esempio, a visitare con più facilità un Paese straniero di Gerusalemme. Limitazioni che colpiscono soprattutto chi ha meno di 50 anni, giustificate dalle autorità israeliane con “ragioni di sicurezza”. E che però hanno il fine di affievolire e recidere i legami storici, sociali ed economici tra i palestinesi dei Territori occupati e la zona araba di Gerusalemme che vorrebbero proclamare capitale del loro (sempre più improbabile) Stato indipendente. D’altronde anche per i palestinesi che vi abitano – circa 350mila, quasi il 40% della popolazione – non è semplice vivere in una città dove gli “arabi” sono considerati ospiti indesiderati sebbene in gran parte dei casi possano vantare origini a Gerusalemme che vanno indietro di secoli rispetto a quelle di un immigrato in Israele giunto dalla Mosca o da New York.

Dal 1967 i palestinesi di Gerusalemme Est sono definiti “residenti permanenti”. Il loro status però non è permanente, al contrario è precario. Possono perdere il diritto a risiedere nella città, nel caso dovesse risultare che Gerusalemme non rappresenti più «il centro della loro vita». Non aver pagato, anche solo per ragioni economiche, qualche bolletta dell’acqua o dell’elettricità e le tasse comunali, può diventare il motivo di una espulsione. Criteri che solo nei casi più estremi vengono applicati nella zona Ovest. Maher T., un quarantenne con quattro figli, a Silwan, ai piedi della città vecchia, ci vive da “clandestino” ormai da tre anni. «Trovare una casa (nella zona araba) è impossibile, non ci sono abitazioni disponibili – ci dice – Nel 2011 decidemmo di trasferirci per un po’ a Kufr Aqab (tra Gerusalemme e Ramallah, ndr), giusto il tempo di trovare un appartamento a Gerusalemme. Il ministero dell’interno però l’ha scoperto e un anno dopo ci hanno comunicato la perdita della residenza poi hanno annullato le nostre carte d’identità». Maher e la sua famiglia a Gerusalemme sono tornati in segreto, “illegamente”. «Questa condizione è comune a tanti palestinesi a Gerusalemme» spiega Neve Gordon, saggista e docente di storia all’università di Bersheeva. «Nessuno deve farsi ingannare dai proclami di Netanyahu e degli altri leader politici israeliani» avverte «Gerusalemme è una città in cui si compiono discriminazioni gravi a danno della popolazione non ebraica». Israele – prosegue Gordon – «ha trasformato la zona Est dove ha insediato centinaia di migliaia di suoi abitanti in colonie costruite dopo il 1967 e i palestinesi di fatto vivono in un sistema di apartheid».

Betty Herschman, dell’associazione Ir Amin che sostiene Gerusalemme capitale di Israele e Palestina, ricorda che per i palestinesi è difficile ottenere permessi edilizi e che il Comune sta intensificando le demolizioni di case arabe “abusive”. Aggiunge che si sente parlare di piani per espellere dalla città un numero crescente di palestinesi, nei sobborghi arabi a nord e a sud di Gerusalemme. «Non sappiamo se questi piani esistano davvero, intanto il fatto che il campo profughi di Shuaffat sia già dietro al Muro (di separazione costruito da Israele, ndr) conferma la politica di contenimento o di riduzione del numero dei palestinesi residenti a Gerusalemme», spiega Herschman.

In un mondo, anche in Occidente, dove i miti hanno il sopravvento e i testi religiosi assumono il ruolo di trattati internazionali, il racconto biblico finisce per sentenziare chi ha diritto di vivere a Gerusalemme. Il sindaco israeliano della città, Nir Barkat, parla degli abitanti come «suoi figli», ebrei e arabi. Tuttavia è sufficiente girare per i quartieri palestinesi e quelli ebraici per comprendere la finalità che ispira chi governa la città. Miseria, degrado e sovraffollamento sono la regola in gran parte della parte araba. «La povertà palestinese a Gerusalemme è cresciuta nell’ultimo decennio» denunciava nel 2013 l’agenzia dell’Onu per il Commercio e lo sviluppo (UNCTAD). Quell’anno a Gerusalemme Est l’82% dei bambini palestinesi viveva in stato di povertà contro il 45% di quelli israeliani (figli di coloni) residenti nella stessa zona. Un tasso di povertà, spiegava l’Onu, legato alla separazione della zona araba dalla Cisgiordania – causata dal Muro – che ha provocato perdite dirette all’economia di Gerusalemme Est per 200 milioni di dollari all’anno. Jamil Hilal, sociologo dell’università palestinese di Bir Zeit, però si dice fiducioso: «Nonostante tutto sono ottimista. I palestinesi malgrado le difficoltà resisteranno. Gerusalemme era e resterà una città palestinese, sarà anche la nostra capitale».

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