Angela Merkel ha potuto festeggiare con serenità e non poche soddisfazioni il suo compleanno dei giorni scorsi. Né il fuoco amico, né quello nemico sono riusciti a scalfirla nel passaggio tempestoso che va dalla cosiddetta «crisi dei migranti» all’elezione di Ursula von der Leyden alla presidenza della Commissione Europea, passando attraverso il diktat imposto alla Grecia che le aveva procurato qualche rappresentazione con baffetti hitleriani. Da tempo si diceva che i tedeschi si erano ormai stufati della sua eterna permanenza alla Cancelleria e il partito da lei guidato subiva importanti emorragie di voti. Ma meno dei suoi partner socialdemocratici e soprattutto conservando la maggioranza.

Ed è, alla fine, questo che conta. Merkel, da una posizione di «insostituibilità», analoga a quella della centralità tedesca in Europa, poteva così lavorare a una successione, tutta al femminile, senza scosse e interamente cresciuta alla sua scuola politica.

Kremp Karrenbauer alla guida della Cdu e la sua ministra della difesa alla presidenza della Commissione ne sono l’espressione emergente ma, più in generale, è l’intero quadro della politica tedesca a restare, almeno per il momento, nella scia della Cancelliera.

Ma procediamo con ordine. A destra, perfino il bavarese Horst Seehofer, che aveva sparato a zero sulla politica migratoria di Angela Merkel e vantava un’ammirata amicizia per Victor Orbán, si è ritrovato a celebrare Carola Rackete che, nel frattempo, si è guadagnata la copertina di Der Spiegel, il più diffuso settimanale della Repubblica federale. Mentre l’onda crescente di Alternative fuer Deutschland sbatteva contro il coperchio che, in Germania, da sempre impedisce all’estrema destra di esondare. E il partito finiva col dibattersi in sempre più torbide e aggressive faide intestine.

A sinistra, la Spd, bruciato un segretario dopo l’altro, e raggiunti i minimi storici del consenso elettorale, dopo avere minacciato più volte di lasciare la Grande Coalizione ci resta senza ben sapere a fare che cosa. È l’eterno dilemma dei partner di governo in declino (come da noi i 5 Stelle) tra la prospettiva di deperire all’ombra dell’alleato più potente e quella di ridursi a dimensioni tali da allontanarli, chissà per quanti anni e forse per sempre, dall’esercizio del potere. La Linke non è riuscita a trarre alcun profitto dalla crisi dei grandi partiti di massa e in particolare da quella della Spd. Anche qui le divisioni interne hanno avuto il loro peso e soprattutto il divergere dei punti di vista sulla politica europea. Ma, a frenare la sinistra radicale, in Germania e ancor più dove si presenta assai più debole, è l’essere annoverata tra i «partiti tradizionali», che interagiscono cioè con la domanda sociale e le insorgenze dal basso tramite linguaggi e rappresentazioni non, come alcuni sostengono, troppo astratte e respingenti, ma, al contrario, tanto familiari e ripetute da risultare logorate. E che spesso costituiscono un vero e proprio ostacolo allo sforzo di radicarsi nelle nuove forme che il conflitto sociale tende ad assumere.

La partita più difficile, per i futuri equilibri politici in Germania, è quella con i Verdi. Non è un caso che, malgrado la loro indubbia affermazione alle elezioni di maggio per il rinnovo del Parlamento europeo, i Verdi siano stati tagliati fuori da qualsiasi posizione di rilievo nelle istituzioni dell’Unione ed abbiano negato il loro voto a Ursula von der Leyden. Soprattutto nella Bundesrepublik la sensibilità ecologista appartiene a pieno titolo alla tradizione, (comprese, nelle sue molte sfumature, varianti ideologiche decisamente conservatrici), ma è altrettanto vero che ha attraversato momenti di conflitto aspri e partecipati. E, sebbene sia spesso scesa a compromesso con le politiche liberiste in combutta con la Spd, ha anche mantenuto una tonalità «antisistemica» e una temporalità politica non schiava della contingenza. Paradossalmente i Gruenen vengono vissuti come un «partito tradizionale», ma, al tempo stesso, come un partito che invita a confrontarsi con fenomeni «nuovi», quelli che si manifestano sul bordo estremo della modernità. Ed è questo ciò che ne ha determinato il successo, nonostante le compromissioni con l’establishment. Per un verso rappresentano stabilità e sicurezza, per l’altro reclamano inversioni di rotta. Su questo versante Angela Merkel non è stata priva di attenzione, compresa la scelta di abbandonare, dopo l’incidente di Fukushima, la via, lungamente perseguita contro la resistenza di un forte movimento, del nucleare. Ma ora la domanda verde si fa più pressante e i segni di crisi nell’industria manifatturiera tedesca rendono più difficile conciliare istanze divergenti. Nondimeno la partita, per quanto difficoltosa, resta nelle mani della Cdu-Csu e del suo accorto centrismo. Per ora contraddizioni in procinto di esplodere non se ne vedono.

La risicata elezione di Ursula von der Leyden, rispecchia in qualche modo la posizione stessa della Germania in Europa: guida poco amata, decisamente indebolita, ma insostituibile. Chi, se non Berlino, può tenere a freno, grazie alla sua poderosa penetrazione economica, le pulsioni illiberali ed euroscettiche delle ex democrazie popolari dell’est? E può garantire gli standard minimi dello stato di diritto e lavorare, nel bene o nel male, a una politica migratoria europea? Chi, se non la Germania, potrà trattare ragionevolmente con la Russia a partire da una solida collocazione occidentale senza sposare Donald Trump? Fino a quando l’Europa resterà nelle mani dei governi nazionali e la «transnazionalità» sarà una questione di «asse» tra questa e quella capitale l’equilibrio – sia pur precario – garantito da Berlino non ha alternative.

Anche se, è bene chiarirlo, esclude ogni ipotesi di democratizzazione dell’Unione europea. E su questo terreno potrà sempre essere sfidato.