Forse nel tentativo di carpire uno dei molti bandoli gettati da Geoff Dyer alla critica, di questo autore inglese sia di saggi anomali che di narrativa ai confini della propria biografia si è scritto molto, quasi sempre girando intorno a qualche sua frase particolarmente iconica, dove stringe in poche parole una sintesi di suoi rovelli, alla fin fine sempre più divertiti che sofferti. La sua è una leggerezza idiosincratica e mai dissimulata, ciò che lo rende baldanzosamente  assertivo mentre traversa i territori della filosofia, della musica, della letteratura, della fotografia e delle arti figurative, e la sua  conversazione – ovviamente affrancata sia dalle zavorre del politicamente corretto sia da quelle della sua negazione – non conosce reticenza nell’emettere giudizi.

Già quando era in collegio a Oxford, Geoff  Dyer  cominciò a interessarsi dell’ultimo periodo della vita degli artisti, e sebbene in tutto il mondo il suo libro più recente di cui si ha notizia sia intitolato (per ovvi motivi di spendibilità) a uno dei più grandi tennisti della storia – Gli ultimi giorni di Roger Federer e altri finali illustri (Il Saggiatore), il suo riferimento del cuore è il mondo del jazz e il suo punto di riferimento sta nel saggio di Adorno sul cosiddetto «stile tardo» di Beethoven. Alla parete alle spalle della sua scrivania a Los Angeles  è appeso un manifesto di Don Cherry e sul piano poggia una lettera acquistata a carissimo prezzo di D.H. Lawrence: questo per dire quanto sia intellettualmente meticcio il suo olimpo. Il nostro incontro è avvenuto a Milano, dove Dyer è stato invitato dalla Scuola di scrittura Belleville, che ha organizzato all’EstRiver una serie di lezioni e incontri  con protagonisti internazionali della narrativa contemporanea.

Stando a quanto ha scritto, «l’angoscia dell’influenza» di cui parla Harold Bloom sarebbe una idea stanca e antiquata. Lei tende, piuttosto, a valorizzare gli esempi che le sono venuti da quelli che considera i suoi maestri, D.H. Lawrence e John Berger. Quali sono le componenti della sua scrittura che pensa di avere ereditato da questi due autori?
Sì, in effetti l’idea di Bloom non mi ha mai convinto. Da John Berger credo di avere preso qualcosa del suo progetto di interrogazione del visibile: per quel che riguarda la narrativa, questo si traduce nella capacità di descrivere in sequenza ciò che i personaggi stanno guardando; e nel caso di un’opera d’arte o di una fotografia, aiuta a esaminarle con grandissima cura. Di D.H. Lawrence amo invece la freschezza della sua presa percettiva, una sorta di istintualità che si traduce direttamente in pensiero. Ha avuto una vita sfortunata, e forse per questo c’è nella sua narrativa troppa filosofia. Non sono i suoi contenuti a interessarmi, bensì la sua immediatezza nel restituire quel che sta osservando. Sebbene entrambi questi autori mi abbiano influenzato positivamente, hanno anche rappresentato, ciascuno a suo modo, un ostacolo nel trovare la mia voce.

Quindi il problema dell’influenza esiste…
Sì, ma senza l’angoscia… Il fatto è che né Berger, né D.H.Lawrence sono autori di spirito, mentre sempre di più mi accorgo, diventando vecchio, che una certa vena di comicità esercita per me una funzione importante: quel tipico humour inglese, molto asciutto, fa parte della mia vita prima ancora che diventassi uno scrittore.

Berger diceva che per imparare a guardare davvero è necessario un certo disprezzo per la cultura dello spettacolo. «Se penso a scritti dai quali apprendere chi siano i nemici dell’osservazione», diceva, «mi vengono subito in mente quelli di Guy Débord». La pensa anche lei così?
Sì, Berger è fantastico, condivido quel che dice, e aggiungo – con Nietzsche – che chi ama molte cose ne detesta altrettante. Invecchiando, la lista di ciò che non posso soffrire si allunga sempre più: per esempio, disprezzo profondamente tutto ciò che è il lusso, e trovo al tempo stesso comico e molto triste il fatto che il mondo dell’arte sia diventato parte di questa cornice, con le stesse caratteristiche di volgarità, e di stupidità che rimandano le vetrine di stilisti del genere Vuitton o Dolce e Gabbana. Il campo della letteratura, invece, non implica una esposizione permanente a ciò che si disprezza, quindi non è mai una fonte di altrettanta irritazione: si tende a essere attratti da titoli che presumibilmente ci piacciono e a ignorare il resto.

Lei ha scritto, che le sta a cuore trasmettere quel senso di meraviglia che un luogo o una situazione possono offrire. E questo sembrerebbe implicare la ricerca di una certa verginità sia nelle cose sia nel modo di osservarle. Al tempo stesso è attratto da opere – per esempio «The Lightning Field» di Walter De Maria – e da autori –  da Nietzsche a Adorno – molto cerebrali, ai quali ha dedicato tantissime pagine…
È vero che sono attratto da elementi contraddittori, ma soprattutto ciò a cui tengo è non ridurmi a rientrare, un giorno, in quella tradizione di scrittori di viaggio britannici impersonata, per intendersi, da Evelyn Waugh. Persone che sono andate in giro per il mondo e tutto quanto sono riuscite a tirarne fuori è una satira: a me sembra che questa saturazione della propria capacità di meravigliarsi sia corrosiva delle cose stesse. Se l’unica reazione che una persona prova davanti a uno spettacolo come quello del Grand Canyon è di delusione, a me pare estremamente stupido. A proposito di questa verginità dello sguardo, è chiaro che quando noi arriviamo in un luogo non reagiamo solo a quel che vediamo, ma anche alla storia delle reazioni che questi stessi luoghi hanno suscitato: per esempio, nel caso del deserto americano, c’è voluto molto tempo prima di riguadagnare la possibilità di apprezzarne tout court la bellezza. Quando Baudrillard ci arrivò, aveva letto gli scritti di Reynar Banham, che a sua volta si rifà a un libro di John C. Van Dyke, The Desert, pubblicato nel 1901, dove il deserto viene definito per la prima volta come una manifestazione geografica del sublime. Dopo di che, trasse dal deserto una metafora dell’America. Del resto, per dirla con Adorno, la verginità va a braccetto con la prostituzione.

Il suo libro, «Un’altra formidabile giornata per mare» mi ha ricordato la cronaca di una crociera che David Foster Wallace scrisse in «Una cosa divertente che non farò mai più». E mi sono detta che la vostra disposizione verso il mondo è opposta: lei in cerca della meraviglia, lui così cerebrale…
Non ricordo se avessi già letto quel libro quando ho cominciato a scrivere il mio, forse no;  ma allora, David Foster Wallace – e non lo prenda come un giudizio su di lui – mi procurava una sorta di allergia: reagivo a ogni sua frase.  Non potevo tollerare tutti quei suoi tic. Ma poi mi sono riavvicinato ai suoi libri e ora lo considero uno dei più grandi esempi del genere di scrittura che mi interessa, capace di saturare con la sua consapevolezza di scrittore ogni esperienza che sta descrivendo. Inoltre, quel libro di DFW è davvero esilarante. Le racconterò un aneddoto: quando questa mia cronaca da una portaerei è stata pubblicata, l’editore americano mi ha chiesto a quali autori mi sentissi più vicino, e io, un po’ ampollosamente, ho risposto: a Roberto Calasso. È probabile che chi lo legge sia interessato a Baudelaire o a Tiepolo o ai miti greci, ma in realtà a me pare che da un certo punto in avanti l’argomento dei suoi saggi fosse sempre più irrilevante. Lo si leggeva perché era l’ultimo libro di Calasso. Un libro tirava l’altro, era come una fabbrica di salsicce di alta qualità. Ecco, credo che anche i miei libri facciano un effetto simile, per quanto il mio registro e il mio tono siano così diversi.

Lei dedica molto spazio a Martin Amis e si chiede se abbia senso considerare il suo ultimo romanzo, «Inside Story», come un ritorno alla forma. Molti anni fa, egli aveva già tentato di scrivere sulla propria biografia, e aveva  titolato il libro Life. Dopo averlo riletto lo distrusse. Perché, disse, «il guaio del life-writing è che la vita è nemica della finzione… Da un punto di vista artistico… la vita è  morta». Sembra, d’altronde che centrare un romanzo su di sé e sulla propria famiglia sia ormai una moda dilagante. Lei cosa ne pensa?
Credo che questa mania di autofiction segnali, in molti casi,  i limiti degli scrittori che la praticano; del resto, è un genere che richiede di mettere in campo pochi strumenti. Ma quando questa stessa operazione funziona al suo meglio, come nel caso di Rachel Cusk, se andiamo a analizzare gli elementi che fanno dei suoi libri degli ottimi romanzi vediamo che lei usa molto bene gli stessi ingredienti che si ritrovano, da sempre, associati alla migliore narrativa. Per quanto riguarda Martin Amis, invece, ho parlato di ritorno alla forma perché nel suo ultimo libro c’è un recupero di quella energia linguistica che aveva perso in romanzi come La sposa vedova, o Cane giallo, o Lionel Asbo, che non solo erano brutti ma terribilmente noiosi, cosa che da Amis non ci si sarebbe mai aspettati.

Dovendo sacrificare qualcosa per non rendere troppo lungo il suo ultimo libro, lei ha deciso di eliminare una sezione dedicata all’editing: eppure questo è un lavoro fondamentale, una pratica che nei giornali e nelle case editrici è in via di estinzione. È d’accordo?Certamente. Proprio Martin Amis era fra coloro che insistevano sul fatto di non avere bisogno di editing, mentre è ovvio che ne aveva bisogno, eccome. E se questo vale per lui a maggior ragione vale per tutti gli altri. Uno dei luoghi dove si pratica ancora un enorme lavoro di editing è il «New Yorker» e anch’io, spesso, mi sono ritrovato a constatare il fatto che la mia scrittura entra in conflitto con il loro stile. Ma, come mi ha detto il mio coach, a proposito del tennis, tutti hanno bisogno di un allenatore, e questo vale anche per la scrittura.

Lei cita Rachel Cusk e John Updike, come esempi di consapevolezza del fatto che la vecchiaia porta con sé una perdita di potere sul linguaggio: sempre più spesso – scrive – la parola giusta, si rende indisponibile alla memoria. Avendo esplorato la stagione finale di tanti artisti, crede che la tarda età abbia portato anche dei vantaggi alla messa a punto del suo stile?
Nel momento in cui lavoravo al mio ultimo libro pubblicato ero consapevole di avere raggiunto una età in cui molti scrittori si avviano al declino; ma il fatto di avere conquistato via via una scrittura stilisticamente più ironica mi rendeva felice. Mi sento più capace, ora, di restituire un senso del mondo che pur non essendo affatto ricoperto di una vernice comica, al tempo stesso ha in ogni sua molecola qualcosa di intrinsecamente buffo.

Nel suo romanzo di esordio, «Il colore della memoria», Freddie, uno degli amici del protagonista, dice: «Odio le trame. Di solito sono la cosa peggiore di un libro. Una noia». La pensa anche lei così?
Per la verità, la mia avversione per le trame è molto più intensa di quella del mio personaggio. Non mi hanno mai interessato, a meno che non si tratti del racconto di un viaggio, dunque di qualcosa di molto lineare, come per esempio avviene in Lonesome Dove, in cui Larry McMurtry descrive ciò che accade ai protagonisti nel viaggio dal Texas al Montana.  Anche nelle serie Tv l’escalation della trama mi sembra sempre così assurda che al terzo episodio le lascio.

C’è una frase, nel suo ultimo libro, che potrebbe funzionare come una spia del suo modo di procedere: lei dice che le serviva uno scrittore, idealmente francese o magari americano, da affiancare al pittore inglese Turner e al compositore tedesco Beethoven, per completare la dimostrazione del fatto che si può essere artisti raffinati e al tempo stesso esibire una certa rozzezza, una malagrazia, una quasi meschinità. Dunque, lei prima ha una idea, poi cerca chi possa prestarsi a funzionare per quella idea?
Questo mi sembra un punto cruciale. Idealmente, è vero,  cercavo una terza figura che funzionasse a servire quella mia impressione di ruvidezza che è associata alle figure umane di Turner e Beethoven; ma poi, non avendola trovata, ho rinunciato. Non sono uno scrittore programmatico, e anche questo mio libro è diventato qualcosa di molto diverso da come lo avevo inizialmente pensato. Tanto che al posto di quella triangolazione non riuscita è venuta fuori, come figura principale, quella di Nietzsche, ovvero un uomo che avrebbe detestato quella ruvidezza germanica che io assegno a Beethoven. Proprio perché non intendo programmare il corso che prenderà un libro, mi rifiuto di anche di formulare delle proposte da presentare ai miei editori.

Non a caso lei scrive che il suo tema principale è la rinuncia, ed è la rinuncia – dice – che l’ha fatta andare avanti fino ad ora.
Sì, l’abbandono di un progetto e il fatto di abbandonare una idea hanno una presenza pervasiva nei miei libri, e il paradosso è appunto che proprio questa frustrazione mi ha spinto a proseguire nella scrittura. Avevo circa quarant’anni quando ho detto per la prima volta a mia moglie che ero un autore finito, e da allora ho scritto una decina di libri; ma verrà il momento in cui la vita mi darà ragione.