Ernesto Galli della Loggia in un editoriale sul Corriere della Sera di domenica scorsa si è prodotto in alcune considerazioni sul fascismo e sul pericolo che ancora oggi esso rappresenta. Ironizzando su quanti negano che il regime mussoliniano «fece anche delle cose buone». Detto che anche Togliatti era convinto che Stalin avesse fatto anche cose buone, il che è ovvio data la complicità di Togliatti con lo stalinismo, Galli sostiene che negare il «buono» del fascismo è un atteggiamento manicheo, inaccettabile sul piano storico, equivalendo a «negare la realtà» di realizzazioni come «la bonifica pontina, l’introduzione degli assegni famigliari, l’istituzione del liceo classico», oltre ai soliti treni in orario.

Detta così però allora anche il nazismo fece «cose buone» (alcune addirittura copiandole dal fascismo); anche questo Galli lo dovrebbe «tranquillamente ammettere».

Ma si può ragionare così del totalitarismo del 900? Qual è il tratto peculiare di regimi come fascismo, stalinismo, nazismo? Quale quello che li qualifica e dunque sul quale va concentrata l’analisi e la critica?

febbraio 2018

Ogni discorso serio sul fascismo deve partire da questo tratto pertinente, evidenziarlo e porlo al centro del dibattito pubblico. Non si può fare pari e patta fra positivo e negativo o dire genericamente che ci furono anche aspetti positivi, perché questo valendo per tutti non ha nessun valore di conoscenza.

Fatto però l’inventario delle «cose buone» Galli domanda retoricamente: «Ma che cosa vale tutto ciò di fronte all’altro lato della medaglia?». E accenna agli orrori del fascismo. La domanda però andrebbe rivolta a lui.

Perché l’altro lato della medaglia è tutto. La violenza, gli omicidi, la repressione, i campi di concentramento, le leggi razziste sono proprio ciò che qualifica come totalitario il fascismo. Insistervi è non solo opera di alta moralità democratica, ma un dovere per lo storico che sappia davvero esercitare il suo mestiere, che sia cioè capace di restituire entro un quadro completo dei fatti, anche il chiaro-scuro, ciò che merita il primo piano e ciò che lo sfondo, la nota decisiva, il Grundakkord. Del resto si tratta di un approccio che vale per la storia tutta, antica, moderna e contemporanea, non solo per i totalitarismi.

Distinguere è un esercizio di intelligenza, prima che un requisito del mestiere.

Benedetto Croce la notte del 25 luglio 1943, alla notizia della caduta di Mussolini, scrisse nei suoi taccuini: «Il senso che provo è della liberazione da un male che grava sul centro dell’anima: restano i mali derivati e i pericoli; ma quel male non tornerà più».
Ecco la lezione morale e storiografica: certo oggi non c’è un pericolo fascista nel senso dell’incipienza di una dittatura (e ci mancherebbe!), ma «i mali derivati e i pericoli», quelli restano e resteranno sempre. La devastazione della sede nazionale della Cgil ci ricorda di che si tratta.
Croce già a fine 1943 riusciva a vedere i pericoli di ritorni fascisti e additava un certo clima culturale che poteva favorirlo.

In un articolo sul New York Times scrisse che il fascismo «non è un fatto esclusivamente italiano», come sostengono ancora oggi i «revisionisti» (Galli ne sa qualcosa), ma «è sparso dappertutto nel mondo» e «scorre nelle vene della società contemporanea». Di certo era sopravvissuto al 25 luglio. E lo sarebbe stato anche al 25 aprile.
Quando dunque Umberto Eco parlava di Urfascismo, cioè di «fascismo eterno», presupponeva un retroterra di analisi, una lettura del ‘900, che solo dei dilettanti possono ignorare. Di qui l’allarme per il futuro. Scriveva sempre Croce: «I miei colleghi in istoriografia (li conosco bene e conosco i loro cervelli) si metteranno a scoprire in Mussolini tratti generosi e geniali, e addirittura imprenderanno la sua difesa»; parla senz’altro del rischio di un «nuovo fascismo», di un «rinnovato squadrismo».

Con l’insistenza sulle «cose buone» non siamo ancora alla rivalutazione di Mussolini, ma ad un approccio da «cattivi maestri» che i «colleghi in istoriografia» dovrebbero per primi evitare.