«Questo è un cinema che scorre in profondità, a volte però i fiumi carsici fuoriescono alla luce». Così Michelangelo Frammartino parla dell’accoglienza, per lui inaspettata, de Il buco al concorso della 78a Mostra del cinema di Venezia. Il regista e un gruppo di dodici speleologi si sono calati fino a quattrocento metri di profondità con la macchina da presa nell’Abisso del Bifurto, grotta situata in Calabria nell’altopiano del Pollino, per ricostruire la prima esplorazione che lì fu condotta nel 1961. «Sembra un film coraggioso perché siamo entrati veramente in un abisso, ma io ho avuto molta paura all’inizio» racconta Frammartino in un incontro a margine del festival. Le condizioni estreme hanno imposto un metodo particolare di lavoro per il grande direttore della fotografia Renato Berta: «La squadra di speleologi stendeva una bobina di fibra ottica che trasmetteva a Berta le immagini. Eravamo in cuffia con lui mentre si trovava davanti ad uno schermo ad alta definizione, era come se fosse già uno spettatore al cinema mentre noi eravamo sul set». A calarsi in profondità è stato originariamente il Gruppo Speleologico Piemontese e inevitabilmente il film narra anche di un punto di contatto fra il nord industrializzato e la cultura rurale calabrese, a questo proposito il regista ha sottolineato: «Si tende ancora molto a guardare al nord per cambiare le cose, io penso invece che esiste una cultura mediterranea molto importante a cui dovremmo prestare più attenzione».

Il periodo storico in cui si è svolta la spedizione è lo stesso delle inchieste antropologiche al Sud di Ernesto De Martino. In entrambi i casi vi era l’idea di far scoprire dei territori ancora sconosciuti al resto d’Italia. Sente che quei luoghi rimangono ancora in parte inesplorati?

Sì, io sono calabrese quindi non mi sento un esploratore ma piuttosto un «esplorato». La Calabria è una terra che ha un’importantissima dimensione informe e contraddittoria. In questo è profondamente italiana, perché il concetto di non finito è centrale nella cultura del nostro Paese. Quando si ha una macchina da presa si conduce inevitabilmente un’esplorazione ma bisogna realizzarla con molta cautela.

All’inizio del film sono poste alcune immagini dell’epoca in cui si sale lungo la parete a vetri del Pirellone. Nel contrasto tra il grattacielo e la grotta sembrano mostrarsi due temporalità diverse: una racconta la trasformazione rapidissima che ha subito l’Italia in quegli anni, l’altra testimonia invece di un processo estremamente lento. Vi è racchiusa una riflessione sul tempo?

La grotta costringe senz’altro ad un confronto con la temporalità. Lì sotto non c’è il ciclo giorno-notte né i cambiamenti termici che regolano il nostro corpo e che rappresentano i nostri riferimenti. Si è nel buio, con la temperatura costante, e qualcosa accade anche a livello fisico. Si ha la sensazione di essersi calati da due ore quando magari ne sono passate dieci. C’è uno smarrimento temporale che appartiene agli abissi.

Considerato che anche girare «Il buco» è stata una vera e propria impresa, il confine tra realtà e finzione non è così evidente in questo film.

Alcuni dicono che i miei lavori fanno parte della corrente del «cinema del reale». Credo che quest’ultimo abbia a che fare con l’ingovernabile che può mostrarsi di fronte alla macchina da presa; operando una ricostruzione naturalmente la situazione è diversa. Però in questo caso, lavorando con gli speleologi in uno spazio molto stretto, i loro movimenti non potevano essere determinati dalle esigenze delle riprese. La dimensione del non controllabile quindi è rimasta fortemente ed è un bene, perché se il film sfugge di mano è senz’altro più interessante. È un conflitto tra la smania di controllo e la voglia che la vita prenda il sopravvento; noi non ci annoiamo davanti la realtà, la guardiamo ad occhi aperti e la troviamo imprevedibile.