Pubblicate sulle pagine del quotidiano «The Pioneer» di Allahabad tra il 30 luglio e il 20 novembre 1889, poi raccolte – non senza modifiche – in Da mare a mare circa dieci anni dopo, le undici lettere che l’allora ventitreenne Rudyard Kipling scrisse dal e sul Giappone durante un viaggio di ritorno in Inghilterra dall’India, passando per l’Estremo Oriente e per gli Stati Uniti, sono ora riproposte con il titolo Lettere dal Giappone (in una nuova traduzione italiana di Giulia Masperi, con una efficace introduzione di Paolo Caponi, O barra O (pp.160, € 15,00).

La scelta editoriale di isolare questo gruppo di lettere dal resto del reportage – che, originariamente, il giovane Kipling scrisse anche con l’obiettivo di rientrare dalle spese del viaggio – ha il vantaggio di offrire una messa a fuoco sull’incontro con il Giappone, che si rivela spesso utile occasione di confronto dell’autore con se stesso. Kipling prova a restituire il Giappone nelle sue manifestazioni più squisitamente sensoriali, quasi a competere verbalmente con le fotografie del professor Samuel Alexander Hill, suo compagno di viaggio e di ‘schiavitù’ (quella «della macchina fotografica» per il professore e «della penna» per Kipling), anche con lo scopo di confermare o smentire, a seconda del caso, altre rappresentazioni libresche degli stessi luoghi visitati.

La descrizione puntuale di un paese per lui nuovo – la «Terra dei Bambini» – lascia talvolta spazio a momenti di acuta introspezione. Il viaggiatore registra così non solo sensazioni oscillanti tra «la meraviglia», l’«interesse» e l’«apatia», ma anche riflessioni sulla sua stessa civiltà. Se gli riesce facile ricorrere all’espediente affatto nuovo del paragone per rendere più familiare il contesto giapponese agli occhi di chi conosce quello occidentale (europea, statunitense o dell’India britannica), manifesta invece a più riprese la sua delusione per quella che gli pare un’eccessiva occidentalizzazione del paese.

Nel corso di un colloquio con il direttore del «Tokyo Public Opinion», i ruoli si rovesciano: «Tirò fuori un taccuino e io sudai freddo. Non era nei miei piani che lui intervistasse me». L’indagine somiglia allora più a una conversazione in cui il cronista deve indossare anche i panni scomodi dell’intervistato, confortato solo dal pensiero che «quel pasticcio» sarà divulgato unicamente in lingua giapponese.

Le impressioni di Kipling, così come le sue esitazioni, sono ormai accessibili a un pubblico ampio, persino più ampio di quello anglo-indiano per cui le sue lettere erano pensate e a cui egli si rivolge direttamente in più occasioni al fine di dare consigli a chi legge su un possibile viaggio futuro. Osservando il Giappone del periodo Meiji attraverso gli occhi e la penna del giovane Kipling, in fondo, leggiamo soprattutto qualcosa di lui stesso.