La casa di Ahmaied era una casa come tante altre, semplice, un piccolo cortile, i mobili della cucina che erano il suo orgoglio, li aveva fatti con le sue mani, l’elettricità. Ogni stanza raccontava una vita quotidiana spazzata via in poco tempo. Siamo a Falluja, Iraq, la città massacrata dagli americani che ne hanno avvelenato il terreno con le armi chimiche – negandole per anni – dove i bimbi muoiono o nascono deformi, i cui abitanti sono morti o fuggiti via e tutto intorno è macerie e violenza.
Dopo gli americani è arrivato lo «stato islamico», altri attacchi, altri massacri, altre bombe – per liberarla – altra morte. E poi? Poi Ahmaied decide di tornare, la sua casa è ancora in piedi pure se in abbandono, porta i segni della guerra, polvere, detriti, proiettili, è spenta come tutta quella che era la città.

Le autorità dicono di fare attenzione, ci sono le mine, le chiamano IED, ordigni improvvisati, fatti in modo artigianale utilizzando un telefono cellulare o il citofono di casa, che uccidono però con grande precisione. E mentre l’uomo si preoccupa della sua abitazione per ricominciare a vivere nella sua città insieme a tanti altri profughi fuggiti e come lui tornati indietro, i suoi due giovani figli che lavorano in una casa vicina saltano in aria. Un attimo e il suo mondo, la sua speranza di futuro vanno in polvere, la «casa» diventa quasi una beffa, da luogo che accoglie a luogo di morte.

Home after War è una delle opere in concorso nella nuova edizione di Venice VR – Virtual Reality che si apre al pubblico domani e fino all’8 settembre – giurati Susanne Bier, Alessandro Baricco, Clemence Poesy. Il luogo è sempre l’Isola del Lazzaretto vecchio, appena di fronte al Lido ma sembra lontanissima dalla frenesia che si respira già intorno al Palazzo del cinema «trincerato» come al solito tra varchi e schieramenti di controlli: la gente va avanti e indietro, si provano le diverse opere, nei lunghi corridoi mentre si mettono a punto le installazioni più complicate – come Umami di Landia Egal e Thomas Pons, il «gusto delizioso» di una madeleine proustiana in cui un uomo ripercorre la sua vita attraverso i sapori – capita di osservare qualcuno che è altrove muoversi col casco in testa come in una irripetibile performance.

Home after War è stato realizzato a Falluja lo scorso gennaio, l’autrice Gayatri Parameswaran è una creatrice di realtà vituale ma anche documentarista e giornalista (è nata nell’87) che vive a Berlino, lavorando soprattutto su diritti umani e ambiente. «Il mio obiettivo ultimo è vedere dei cambiamenti per i civili di questa regione» dice.
Davanti alla porta dove comincia il nostro viaggio ci sono le fotografie della città, i bimbi seduti sulle macerie, e sono loro quelli che corrono più rischi con le mine, i figli del protagonista perché la storia di Ahmaied è «vera» e somiglia a tante altre troppo uguali. Nella casa abbandonata sentiamo la voce dell’uomo presentarsi, ascoltiamo le sue parole pacate, l’orgoglio per quella sua abitazione, il desiderio di ricominciare insieme alla famiglia. Home, casa, che è anche il proprio Paese, l’Iraq appunto. Ci spostiamo e all’improvviso siamo tra una piccola folla di ragazzini, donne velate, uomini che ascoltano i pericoli delle mine…. L’intento del progetto è evidente, mettere al centro la questione delle mine a Falluja come in altre zone di guerra eppure la sua forza va al di là di questo. Non è solo il momento dell’esplosione, una nuova bomba inattesa che fa comunque sussultare, quanto trovarsi in un luogo che dall’attacco di Bush ci è precluso come tanti altri, la Siria, l’Afghanistan resi inaccessibili dai conflitti che ne hanno risucchiato la storia, cancellato le architetture, la cultura, le memorie.

E a un tratto siamo anche noi lì, tra quei detriti di polvere, sotto a un cielo scuro scopriamo cosa accade «dopo», quando si dichiara la guerra finita, quando i media vanno via, nella vita di ogni giorno tra coloro che restano, le speranze e il dolore infinito.
Di guerra parlano diverse opere, il secondo conflitto mondiale e il bombardamento di Berlino in 1943: Berlin Blitz di David Whelan che utilizza il sonoro di Wynford Vaughan-Thomas, corrispondente di guerra per la Bbc imbarcato su un Lancanster, conducendoci nello stesso abitacolo del bombardiere, nel cielo buio solcato da improvvise esplosioni, mentre le bombe cadono sulla città – «la scena più orribilmente bella che abbia visto» la definì Vaughan-Thomas.

O il molto bello The Unknown Patient di Michael Beets, questa volta la Grande Guerra di cui il «Paziente sconosciuto» del titolo è una delle tante vittime nascoste dalla Storia (viene in mente Oh Uomo il magnifico film di Gianikian Ricci Lucchi sui sopravvissuti della prima guerra mondiale) . L’ispirazione è una vicenda reale, un uomo che si aggira nelle strade di Londra con la divisa dell’esercito australiano, senza sapere chi è, perché si trova lì. Lo rinchiudono in manicomio, lo accusano di essere un disertore. Piano piano entriamo nei suoi ricordi, nel trauma della guerra che è quello di tanti, nel silenzio che lo avvolge, nelle ferite rimaste sul corpo e nel cuore di chi è riuscito a tornare a casa. Una moneta, una sigaretta, la corsia di un ospedale: l’infermiera ricorda anche lei qualcuno che ha perduto tra quegli uomini senza volto, uguali nel dolore uno all’altro.

Racconta la lotta delle donne a inizio secolo, il movimento delle suffragette, Make Noise di May Abdalla coregista del collettivo Anagram. Ma più che ricostruire il movimento portandoci nel tempo e nello spazio, Make Noise chiede a chi partecipa di usare la voce: gli obblighi della casalinga, bucato, lenzuola stese, ferri da stiro, e quant’altro che ti arrivano addosso, l’arma per respingerli è la voce: gridare o sussurrare alcune parole, «lotta», «rabbia» dire il nome di chi è stato importante nella tua formazione – altre donne. La presa di parola è dunque il punto di partenza essenziale per costruire un movimento – un po’ quanto accaduto con #metoo non il giustizialismo a colpi di denuncia – e una battaglia comune.

Più di genere, e vicino al cinema nella sua forma molto interattiva, Kobold di Max Sacher, un horror che chiede a chi gioca di tornare indietro, sulle tracce di un bambino scomparso misteriosamente (c’è anche un «prologo» in forma di film). Di entrare nella vecchia casa ormai abbandonata dove viveva, salire le scale con la sola luce della torcia, entrare nella sua stanza per trovare indizi, possibili soluzioni al mistero. Il piccolo aveva perduto la mamma, dovevano andare via lui e il padre, cambiare casa, forse città, e poi il ragazzino aveva un amico misterioso, invisibile agli altri, diceva che era la mamma a averglielo mandato.
La scommessa appare quella di costruire una selezione molto differenziata, anche a livello tecnico, oltre che nei temi e nel rapporto con il cinema a cui guardano diversi autori. Quello che resta, di ogni esperienza esplorata, è il tentativo di raccontare il mondo e di misurarsi con le immagini nel nostro tempo. Una via aperta.