Il Consiglio di stato chiude una volta per tutte la partita, aperta ormai da due anni, sulla nomina di Marcello Viola a procuratore capo di Milano. Il ricorso presentato dall’aggiunto Maurizio Romanelli è stato respinto, così come era già accaduto lo scorso settembre davanti al Tar del Lazio (quando c’era pure un altro ricorrente, il procuratore di Bologna Giuseppe Amato, che ha interrotto lì la sua battaglia).
Il Consiglio di Stato ha valutato corretta la scelta fatta dal Csm il 7 aprile del 2022, riconoscendo «la maggiore rilevanza delle funzioni direttive svolte da Viola» rispetto a Romanelli. In buona sostanza si è ritenuto che i cinque anni da consigliere giudiziario a Firenze (dove era procuratore generale) di Viola valgano di più delle esperienze fatte da Romanelli alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (dove ha passato due anni e mezzo) e come aggiunto a Milano. La decisione del Csm, dunque, «va condivisa» perché «per il parametro delle esperienze di rilievo ordinamentale la prevalenza del dottore Viola è netta». Il plenum del Csm che incoronò Viola capo della procura di Milano, comunque, fu durissimo e alcuni passaggi vengono citati anche nella sentenza del Consiglio di stato. Ad esempio il botta e risposta tra l’esponente di Area democratica per la giustizia Giuseppe Cascini e l’indipendente Nino Di Matteo

A COMINCIARE FU CASCINI, che ricordò come, nel 2019, Palamara durante un incontro con alcuni consiglieri del Csm e alcuni politici caldeggiò la nomina di Viola a capo della procura di Roma. E Di Matteo a quel punto rispose con un’appassionata difesa del collega, dicendo che non c’era «nessuna prova, indizio o traccia anche minima di rapporti diretti tra Viola e i protagonisti della riunione in cui si discusse del posto di procuratore di Roma». Poi l’affondo, velenosissimo, con l’evocazione di un altro intervento «quantomeno scomposto» da parte di un altro magistrato con Palamara per la conferma di Romanelli ad aggiunto della Dnaa. Ma, ha concluso Di Matteo, rievocare la vicenda sarebbe stato poco corretto, «così come non lo è evocare per Viola quella della riunione per la nomina alla Procura di Roma». Il Consiglio di stato ha valutato l’intervento di Di Matteo come corretto, respingendo anche la parte del ricorso di Romanelli in cui lamentava il mancato contraddittorio per quella vicenda. Fatto sta che, in un modo o nell’altro, siamo all’ennesimo capitolo della vicenda Palamara, che all’epoca dei fatti citati da Cascini e Di Matteo non era più membro del Csm ma era comunque elemento di spicco di Unicost (la corrente centrista della magistratura), notoriamente molto influente nelle varie dinamiche dell’apparato giudiziario italiano.

QUANDO NELL’OTTOBRE del 2020 Palamara, travolto dagli scandali, venne radiato dalla magistratura e perse la toga, avvertì in maniera molto chiara la sinistra giudiziaria: «Gli accordi si chiamano così perché partecipano più rappresentanti dei vari gruppi – disse –, i miei accordi sono stati prevalentemente con la corrente di Area. Quando mi sono spostato più a destra, con Magistratura indipendente, sono cominciati i problemi». La votazione del Csm per la procura di Milano segnò la fine, dopo 34 anni, della guida di Magistratura democratica. Viola si aggiudicò l’ufficio con 13 voti: i 4 togati di Magistratura indipendente, Di Matteo e Sebastiano Ardita di Autonomia & indipendenza (la corrente fondata da Piercamillo Davigo). Tra i laici si registrò invece una clamorosa convergenza tra la destra e i grillini: 4 voti da Lega e Forza Italia e 3 dal Movimento Cinque Stelle.