Saverio Costanzo lo definisce «un film su chi è ancora capace di guardare il mondo con stupore»e certo la sua protagonista, la giovane Mimosa – sorprendente Rebecca Antonacci – ragazza di borgata con la passione per il cinema quegli occhi grandi, azzurri, li tiene ben diritti sulle cose senza distogliere lo sguardo mai, neppure quando incrocia quello dei suoi miti, attori e attrici leggendarie nel suo cuore. Roma, anni cinquanta. La guerra è finita da poco, i cinema sono affollati, Mimosa con la madre e la sorella ci vanno spesso. Lei si appassiona al neorealismo che invece annoia la mamma, al cinema dobbiamo divertirci sbuffa la donna – mettendoci subito nella dicotomia di cinema d’autore/cinema popolare. Il bianco e nero con Alida Valli (Alba Rohrwacher) che si sacrifica per la bimba ebrea fa troppo male a chi dopo il dolore cerca la spensieratezza. La sorella di Mimosa sogna di essere attrice, come tante ragazze allora, è la «bella» di casa mentre lei è stata destinata a sposare un poliziotto. Così quando un gradasso per fare colpo fa balenare la possibilità di un provino a Cinecittà lei impazzisce, i genitori sono diffidenti, poi accettano e Mimosa l’accompagna. Girano un peplum su una crudele Faraona coi divi del momento, una produzione americana (e interamente ricostruita per l’occasione), un po’ i soldi, un po’ il fascino dello spettacolo a presentarsi per la parte sono tantissime, un mondo che si conosce reciprocamente nei suoi trucchetti e nelle sue regole – Bellissima ci ha detto tutto.
Comincia così il viaggio di Mimosa che suo malgrado si trova laddove in tante vorrebbero essere senza fare nulla, senza accettare le «regole» dell’ambiente, lei che non la prendono come comparsa perché la camicetta non se la slaccia. E mentre gironzola per Cinecittà in un tempo che all’improvviso sembra accartocciarsi, davanti ai suoi occhi si manifestano segreti che sgretolano le apparenze di quelle finzioni tra trucco e costumi (molto belli qui di Antonella Cannarozzi), e la realtà irrompe prepotente con una ragazza uccisa in spiaggia, vicino a Roma, Wilma Montesi, che forse era come lei, o come le altre in fila a Cinecittà per una posa.La notte di una giovane attrice per caso, gli anni ’50 del Bel Paese, il cinema

NON È PERÒ Finalmente l’alba un film «su» l’omicidio Montesi questo di Saverio Costanzo, anche se è stato come ha detto il regista lo spunto iniziale in quanto primo «scandalo» mediatico nella società italiana dell’epoca per i personaggi famosi che vi erano coinvolti del cinema e della politica – della morte di Montesi venne accusato Piero Piccioni, figlio di Attilio, allora vice presidente del Consiglio e figura di rilievo della Democrazia cristiana. Non solo. Le indagini avevano fatto il nome del marchese Ugo Montagna, proprietario di una villa non lontana dal dove venne ritrovato il corpo, che si diceva organizzava feste (e festini) di lusso per la buona società romana del tempo.

DAL MOMENTO in cui Mimosa «entra» nel filmato su Wilma Montesi inizia la sua lunghissima notte che la porta a attraversare tutti i luoghi di Wilma fino a quella festa popolata dalle stesse persone di cui aveva riferito la cronaca. Ce la porta la protagonista del peplum, Josephine Esperanto (splendida Lily James) con il giovane attore (Joe Keery) e un amico gallerista Willem Dafoe. L’attrice l’ha presa in simpatia o forse è solo il suo capriccio di una sera, le ha regalato un bel vestito e la trova abbastanza «esotica» col suo accento romano da farla passare per una poetessa svedese. Le ore colano pure se sembrano immobili, ci sono Alida Valli e Piero Piccioni, ci sono vecchi vogliosi di ragazzine, i giovani cinici e spregiudicati; si beve, si tira cocaina, c’è sesso che non si sa mai in cambio di cosa, si cerca di vendere quadri e magari le proprie fidanzate. Mimosa appare la «vittima» ideale anche perché la sua protettrice la prende e la lascia, si stanca, è gelosa, la vuole persino ridicolizzare.

EPPURE non va così in fondo perché da quelle aspirazioni di rotocalco lei è distante, le attraversa quasi come nel sogno di un Alice meravigliata. E se invece lo fosse davvero un sogno? Se fosse l’eco notturno di quanto sentito alla tv da una ragazzina condannata a altro, un matrimonio cafone e una casetta in qualche provincia? Mimosa osserva, prova un po’ tutto e si prende qualcosa che desidera e quando sarà «finalmente l’alba» questa esperienza le avrà insegnato a essere un’altra, o forse semplicemente se stessa. È su questo limite tra società dello spettacolo e desideri personali che lavora Costanzo, intrecciando la storia del cinema italiano a quella di una società incantata – che al neorealismo – anche se la casa di Mimosa ricorda più L’amica geniale – predilige il richiamo di una fantasia collettiva in continua trasformazione. È un gioco di specchi continui, a volte malinconico tra donne, Mimosa e Josephine, tra mondi, maschere, intimità, declinazioni di un «immaginario popolare» questo film, in sala il prossimo 14 dicembre – dedicato al padre Maurizio di questo immaginario popolare perfetto conoscitore – con un’ambizione molto alta che forse la regia e scrittura (Costanzo è anche autore della sceneggiatura) non riescono sempre a controllare. Ma nel suo declinare tutte le Wilma possibili, narra le fantasie di una nazione e riesce senza vittimismo a trovare una chiave per restituire una scommessa di sé, uno stare al mondo che non è solo riflesso di qualcos’altro.