«Pouvoir assassin!». Lo slogan divenuto la colonna sonora della «Primavera nera» del 2001 torna a risuonare minaccioso in Cabilia e nelle altre regioni berberofone dell’Algeria. I berberi sono in fermento dopo la morte di Kameleddine Fekhar, un militante dei diritti umani, incarcerato arbitrariamente e in sciopero della fame dal 31 marzo scorso.

Questa morte, avvenuta martedì 28 maggio all’ospedale di Blida, dove Fekhar era stato trasferito quando le sue condizioni erano ormai molto deteriorate, lascia adito al sospetto che in realtà nulla sia stato fatto per salvare la sua vita e che la sua sorte sia stata decisa dall’alto, vuoi per far tacere una voce che da sempre denunciava le ingiustizie del regime, vuoi per accendere l’esca di uno sdegno che possa fornire il pretesto per una dura repressione e per fomentare la divisione del fronte della protesta, creando divisioni tra arabi e berberi. Anche il suo compagno di prigionia, Hadj Brahim Aouf, pur avendo sospeso lo sciopero della fame, subisce maltrattamenti e abusi e teme adesso di fare presto la stessa fine di Fekhar.

Kameleddine Fekhar era nato il 9 febbraio 1963 a Ghardaia, nella regione berberofona dello Mzab (sud dell’Algeria). Medico di professione, lascia la moglie e otto figli. Instancabile paladino dei diritti umani in un paese dove la casta al potere non tiene in alcun conto i diritti dei più deboli e delle minoranze, per questo suo impegno era già stato arrestato a più riprese e anche sospeso dalla professione per undici anni.

Kameleddine Fekhar in una foto scattata a Roma

 

La regione dello Mzab è l’ultimo rifugio dei pochi musulmani ibaditi rimasti in Algeria dopo l’affermazione dei Fatimidi intorno all’anno Mille. Seguaci di un rito distinto sia dal sunnismo sia dallo sciismo, trovarono rifugio in questa grande vallata alle porte del deserto, costruendovi cinque città dall’architettura urbanistica molto caratteristica, che suscitò l’ammirazione di Lecorbousier e per molto tempo ha attirato una gran parte del flusso dei turisti verso l’Algeria.

Sono conosciuti per il loro carattere laborioso e pacifico, poiché il loro credo è impostato su una severa etica del lavoro, al punto che vengono descritti come i «calvinisti dell’Islam». Per il loro attaccamento alla cultura e alle tradizioni ancestrali, di cui fa parte la lingua berbera, sono da sempre malvisti dal regime di Algeri, che cerca in tutti i modi di farli scomparire, confiscando terreni e distribuendo alloggi a masse di diseredati arabi, che non di rado se la prendono con le attività commerciali degli mzabiti, arrivando ad atti di violenza contro le persone e le cose.

Nel 2015 la situazione era talmente degradata che si ebbero diversi morti oltre al danneggiamento di antichi mausolei, patrimonio dell’umanità. Diversi filmati inchiodavano le autorità alle loro responsabilità, mostrando come le forze dell’ordine accompagnassero e proteggessero i violenti invece di fermarli e disarmarli.

Kameleddine Fekhar venne in Italia per denunciare questo comportamento razzista e criminale, e successivamente rivolse un appello alle Nazioni unite in cui chiedeva l’aiuto della comunità internazionale per fermare «l’apartheid e la pulizia etnica» in atto contro il suo popolo. Questo atto gli valse due anni di prigione: venne liberato soltanto in seguito alla mobilitazione internazionale che si era sollevata intorno al suo caso.

Questa volta è bastato che in un’intervista affermasse che l’amministrazione pratica la segregazione nei confronti della popolazione perché lo mettessero in prigione senza nemmeno peritarsi di esplicitare un capo di accusa. A conferma della volontà repressiva delle autorità di Ghardaia, anche il suo avvocato, Salah Dabouz, è in stato di accusa per il solo fatto di essersi interessato alla sua difesa e di portare all’esterno, giorno per giorno, notizie sul trattamento inumano che in carcere gli veniva riservato.

Negli ultimi giorni i resoconti erano sempre più drammatici, con la descrizione di uno stato di salute ormai allo stremo, ma anche di fronte a questa situazione le autorità hanno continuato a negare la scarcerazione e a rifiutare adeguate cure mediche.

Il cordoglio e lo sdegno per questa morte annunciata stanno facendo nascere un po’ dovunque iniziative di ricordo e di protesta, tanto in Algeria che nell’emigrazione. Per le manifestazioni di oggi, ininterrotte dalla fine di febbraio contro il clan al poter, è stato proposto di effettuare un minuto di silenzio.

Pacifista convinto, Fekhar si stava dando da fare per mantenere l’unità di intenti tra i berberi e gli arabi chaamba della sua regione per combattere insieme l’ingiustizia del regime. C’è da sperare che la sua morte, invece di accrescere le tensioni tra le comunità, finisca per rinsaldare la contestazione al «potere assassino» che aggiunge un’altra vittima alle tante sulla propria coscienza.

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A Milano è indetta per domani mattina, sabato 1 giugno, una manifestazione davanti al consolato algerino. Tra le richieste dei manifestanti, un appello ai politici italiani perché protestino presso il governo di Algeri e chiedano che si faccia luce sui responsabili della morte di Kameleddine Fekhar. «Se l’Algeria è un paese in cui qualunque cittadino può essere messo arbitrariamente in prigione uscendone solo morto – si legge nella nota – sarà impossibile rifiutare lo status di rifugiato a qualunque algerino ne faccia richiesta in Italia».